Omicidio Vannini, parla Federico Ciontoli: "Ho paura che mi sparino in testa" • Terzo Binario News

Nella dichiarazione di oggi – riportata da Quarto Grado – ha anche aggiunto: “Con mio padre idee diverse soprattutto per il suo carattere da portatore d’acqua

Oggi è tornato in aula Federico Ciontoli, uno degli imputati nel processo per l’omicidio di Marco Vannini. Alla sbarra, oltre a lui ci sono il padre Antonio, la sorella Martina e la madre Maria Pezzillo. l’ultima volta era capitato durante il processo di primo grado.

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Federico ha reso delle dichiarazioni spontanee che – in larga parte – ricalcano quanto già espresso in Primo Grado. Però fornisce un paio di spunti interessanti. su tutti, il rapporto in quel momento conflittuale con il padre Antonio e il timore che qualcuno – senza spiegare perché – possa ucciderlo. In tutto ha parlato per 17 minuti, come trascritto da Quarto Grado.

“Mi dispiace di leggere un foglio ma è l’unico modo in cui penso di farcela. Se sono qui è perché vorrei che qualcuno potesse ascoltarmi e conoscermi come persona, non con il nome generico della famiglia o quello che è stato scritto su di me. Non so cosa sia in questo momento nella testa di mia sorella, di mio padre o di mia madre ma so benissimo quello che c’è nella mia.
Non sono qui perché penso di poter convincere qualcuno ma perché penso che c è una alternativa a quello che si è detto fino ad oggi
Le persone che mi sono state vicino sanno cosa significa la tentazione di credere a tutto quello che viene scritto e detto da media e mondo politico e giuridico su di me, ma non cadono nella tentazione perché mi conoscono e sanno quello che sono.
“La morte di Marco oggi è una verità ma quella sera non mi è mai sfiorata l’idea che questo potesse accadere neanche per un solo istante. La prima cosa che mi è interessata quella sera è che qualcuno che sapeva cosa fare potesse intervenire visto che anche se mio padre diceva di poterci pensare lui a me per un po’ non sembro’ che fosse così. Mio padre diceva che Marco si era spaventato per uno scherzo e io gli credetti perché non c’era motivo per non credergli. Non c’era niente che mi spinse a non credere a quello che mio padre chiamo un colpo d aria. Sul significato non mi interessai più di tanto visto che era stato solo uno scherzo. Gli credetti perché mio padre si comportava proprio come se stesse gestendo uno spavento ossia alzando le gambe e rassicurando. Per quel che mi riguardava lo spavento poteva essere causato da qualche altra cosa. Inizia a preoccuparmi dopo un po’ perché Marco era bianco e io non ero in grado di gestire una situazione che non avevo mai vissuto. Chiesi a mio padre se fosse qualcosa che a lui era già capitato. Se anche quello fosse stato un attacco di panico era una cosa che io non avrei saputo gestire per cui di mia iniziativa presi il telefono, scesi di casa e chiamai il 118. Non guardai l’ora ma sono certo che il tempo che passo’ fu minimo. Cercai di convincere mio padre a chiamare anche se lui pensava non servisse. Oggi alla luce del fatto che sono venuto a sapere che la chiamata è avvenuta alle 23,41 posso dire con certezza che mi sono alzato dal letto non più di 10 minuti prima, a capire cosa fosse quel rumore. Quindi sicuramente lo sparo è avvenuto non prima delle 23,30.”

“La verità è che io ho chiamato i soccorsi pensando che fosse solo uno spavento, figuriamoci se non l’avrei fatto pensando che era partito un proiettile! Se avessi voluto nascondere qualcosa perché avrei chiamato subito l’ambulanza di mia spontanea volontà, dicendo che Marco non respirava? E perché avrei detto a mia madre che non mi credevano e di fare venire i soccorsi immediatamente? Per quello che vedevo io Marco era bianco e non respirava bene. Questi erano i sintomi che presentava. Se avessi solo immaginato che era partito un colpo di pistola o che la pistola era rilevante non avrei esitato a dirlo! Durante la mia chiamata al 118 rimasi incredulo per il fatto che non mi credevano. Dissi all’operatrice che non le sapevo spiegare cosa era successo perché io non c’ero ed ero telegrafico nelle risposte perché non capivo perché lei temporeggiava quando le avevo detto che Marco non respirava ed era bianco. Forse ha pensato che fossi un bambino. E quando passai il telefono a mia madre se avessi voluto nascondere qualcosa sarebbe stato stupido rivolgermi a mia madre e dirle ‘glielo dici per favore tu, non mi credono’…

Dopo la chiamata Marco ebbe un momento in cui sembrò riprendere le forze, cosa che mi convinse ulteriormente che si trattava solo di un forte spavento.
Se rivediamo questa convinzione alla luce di quello che sappiamo oggi, allora il mio comportamento potrebbe sembrare inspiegabile.
Ma se vediamo alla luce di quello che io sapevo in quel momento, e cioè che si trattava solo di uno spavento, allora il mio comportamento è coerente con quel momento.
La situazione poi peggiorò di nuovo e Marco iniziò a lamentarsi di più. Questa situazione mi portò ad insistere sulla necessità di chiamare i soccorsi.
Io mi fidavo di mio padre. Chi non si fida di un padre? Anche se, nonostante i rapporti con la famiglia fossero buoni, avevamo spesso idee diverse, anche nelle piccole cose, soprattutto per il suo carattere da portatore d’acqua.
Così, dato che la situazione non sembrava migliorare, iniziai a dubitare che si trattasse solo di uno spavento. Perché uno spavento avrebbe avuto un termine. E così andai in bagno dove avevo trovato le pistole e trovai il bossolo.
Quello fu il primo momento in cui compariva nella mia testa la possibilità che poteva essere partito un colpo, non prima.
All’istante corsi a dirlo a mio padre, nella consapevolezza che anche lui fino a quel momento non fosse stato consapevole del fatto che era partito un colpo”
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“Se solo avessi potuto immaginare che era partito un colpo di pistola e che non si trattava solo di un attacco di panico, se avessi potuto immaginare che Marco ora non sarebbe stato qui, che un essere umano sarebbe morto. Se avessi potuto immaginare che avrei dovuto affrontare un processo mediatico, giuridico e sociale di queste proporzioni e infine se non fosse stata per me una situazione inusuale e inaspettata, nella tarda sera di una domenica tranquilla, quando ero già a letto guardando un film e in dormiveglia.
Ma questi sono “se” che possiamo porci ora, a posteriori, oggi che sappiamo quello che stava accadendo, oggi che sappiamo quali sono stati gli effetti di quello che stava succedendo e potendoci riflettere senza l’agitazione di quella sera e potendomi prendere tutto il tempo necessario. Tutti questi “se” erano inesistenti per me invece, quella sera.”

“Quello che era in mio potere quella sera, sulla base di quello che sapevo e potevo immaginare in quel momento lo feci. Ho dovuto spiegarlo anche a me stesso. Ma non l’ho dovuto fare partendo da certezze che oggi io penso sia necessario che condivida con voi. Ad esempio l’arrivo dell’ambulanza fu per me il primo momento in cui l’agitazione si avventò, perché era quello che avevo voluto fin dal primo momento.
Feci su e giù con Viola lungo via Alcide De Gasperi fino all’incrocio con via Flavia perché l’ambulanza sembrava ritardare. E quando arrivò, dopo avergli fatto cenno in strada per indicare il cancello di casa, mi accorsi che non c’era posto per parcheggiare l’ambulanza perché la macchina di mio padre era parcheggiata davanti al cancello. Così andai a spostare l’auto che avrebbe potuto essere d’intralcio. Girai per un po’ di tempo ma essendo domenica sera non c’erano posti dove poter parcheggiare l’auto. Così dopo aver fatto vari giri sia su via Flavia che su via De Gasperi, decisi di lasciare la macchina davanti al passo carrabile. La verità è che in quel momento per la prima volta, non sentivo più la pressione di dover fare qualcosa perché erano arrivati i soccorsi e per me loro avrebbero saputo cosa fare. Salii le scale solo in un secondo momento, quando gli infermieri erano già in casa e in procinto di andare via. Io e Viola, che era rimasta ad aspettarmi in giardino, salimmo le scale e ci fermammo sul balcone anche perché loro erano sull’uscio della porta dell’ingresso di casa e per entrare avremmo dovuto scavalcarli.”

“Arrivati i soccorsi ci dicemmo che le cose potevano andare solo meglio da lì in poi. Da dentro casa mi chiamarono e mi chiesero di aiutarli ad accompagnare Marco giù al giardino perché non potevano trasportarlo con la barella. Quello fu il primo e unico momento in cui mi sono interfacciato con gli infermieri, non prima. E ad oggi non ricordo nemmeno le loro facce. La seconda cosa che vorrei dire è che mio padre era indeciso se andare a parlare prima con gli infermieri o con i genitori di Marco, e io gli dissi che non aveva senso, doveva andare dai genitori di Marco e spiegare cosa era successo. Ma lui mi disse che aveva detto una cazzata agli infermieri su quello che era accaduto: io gli chiesi cosa aveva detto ma da come mi rispose capii che non era in grado di spiegarlo. Dissi che avrei parlato io con i genitori di Marco perché lui sembrava fuori di testa. Appena arrivati mentre mio padre andava dai medici io andai dai genitori di Marco e gli dissi che era partito un colpo di pistola e che era nel braccio. Andai poi a chiedere se avevano rimosso il proiettile dal braccio e un uomo con un camice bianco rispose che non potevano farlo e non era importante in quel momento. Questo mi confermo che non era una cosa preoccupante è tantomeno poteva causare la morte. Che Marco potesse morire non è entrato nella mia testa fino a quando mio padre nella caserma mi disse ‘Federi’ Marco è morto’. Il maresciallo Izzo e altre persone erano presenti in quel momento. Quella stessa sera incredulo chiesi al maresciallo Izzo come era possibile che Marco fosse morto e lui, che era al telefono, mi rispose che il proiettile era deviato e aveva fatto un’altra traiettoria.”

“Sono qui non per paura di essere condannato, ma perché la verità è quella che ho sempre raccontato. Per anni sono sceso per strada con la certezza che qualche giornalista mi pedinasse, o bloccasse la portiera dell’auto per non farmi partire e forzatamente cercasse di estorcermi un’intervista come ormai avveniva abitualmente. Ma questo non è niente rispetto al fatto che per 3 interminabili anni sono uscito ogni giorno da casa per andare a lavorare e ho camminato perseguitato dall’immagine di qualcuno che potesse venire lì e spararmi alla testa solo per quello che dicevano di me alla televisione. Non che questo non possa avvenire oggi o che io non lo pensi più. Ma oggi non ho più paura e ho raggiunto una certezza: di fronte alla verità ogni costruzione crolla, seppur col tempo. Penso anche che la ripetizione di questo processo abbia permesso a me di essere nuovamente qui, per provare ad essere più chiaro ed esaustivo. E ha anche permesso a tutti gli altri di avere una opportunità di sapere come sono andate le cose. Spero che le mie parole possano rimanere qui da ora in poi. Non è solo la mia verità che difendo, ma l’importanza della VERITÀ ossia come sono andate veramente le cose. Vorrei che non rimanessi l’unico a conoscere quella verità. Vi ringrazio. “

Testo riportato da Quarto Grado

Pubblicato mercoledì, 8 Luglio 2020 @ 20:42:31     © RIPRODUZIONE RISERVATA