Riceviamo e pubblichiamo – Nei giorni scorsi abbiamo studiato in classe un periodo terribile del ‘900 in cui il partito nazista ed Hitler si imposero in Germania ed in Europa, cavalcando il razzismo, la violenza e l’antisemitismo. Ma il nostro Paese non fu da meno, nel 1938 vennero promulgate anche in Italia le leggi razziali.
A Roma nel collegio “Pitigliani” c’era Alberto Sed, un ragazzo che aveva la passione per il calcio. La sua famiglia era composta dalla madre e dalle tre sorelle. A causa di quelle leggi, Alberto non poté più continuare gli studi, né giocare a calcio con i suoi compagni di sempre. Perché? Perché era ebreo.
Alberto ora è molto anziano, parla a voce molto bassa e, a causa delle bastonate subite al campo, non sente bene ad un orecchio. Tiene molto agli incontri con le scuole e nella sua casa ha una stanza dedicata a raccogliere documenti, ma soprattutto le lettere dei ragazzi; lui la chiama “il piccolo museo”. Non è un caso che Alberto sia venuto a parlarci proprio in questa data. Il 16 ottobre del 1943 ci fu una razzia: 1024 ebrei, tra cui 200 bambini, furono catturati e deportati, solo perché erano ebrei. Così 72 anni dopo, il 16 Ottobre 2015, Alberto ha narrato la sua tragica esperienza, incontrando, nell’Aula Consiliare del nostro Comune, i ragazzi di dodici classi medie della “Corrado Melone” e del “Ladispoli 1”.
Prima di dare la parola al nostro ospite, la professoressa Pascucci lo ha introdotto ricordando quella triste e vergognosa data del 16 Ottobre in cui l’Italia condannò a morte, consegnandoli ai tedeschi, più di mille italiani, strappati alle loro case e deportate. Ha poi ricordato che qualche giorno fa, Alberto Sed con altre diciassette persone, è stato insignito, dal Presidente della Repubblica Mattarella, dell’onorificenza di “eroe” della nuova Italia, per la sua attività di testimonianza della Shoah nelle scuole e nelle carceri.
Nell’Aula Consiliare abbiamo così sentito dalla voce di Alberto, il racconto della sua vita, un susseguirsi di episodi atroci e cattiverie subite, che lo hanno segnato, proprio nell’età che doveva essere la più spensierata e serena.
Il padre, commerciante, era morto a causa di un’infezione, che ai nostri tempi si sarebbe potuta curare con facilità, quindi la madre iniziò a lavorare al posto del padre; Alberto dovette andare in collegio. Lì, oltre ad impegnarsi nello studio, iniziò a coltivare la passione per il calcio, giocando con i suoi coetanei e chissà che non sarebbe diventato un campione come Totti, che Alberto ha incontrato lo scorso anno. Ma con l’avanzare della guerra e con le leggi razziali, essendo lui un ebreo, gli fu negata la prosecuzione degli studi; gli fu negato il calcio e con questi la sua adolescenza. Alberto non poté continuare gli studi, né giocare a calcio con gli amici, che non lo accettarono più… Egli non capiva cosa stava succedendo, come del resto non lo compresero in molti. Per aiutare la famiglia, Alberto cominciò a fare qualche lavoretto. Il 16 Ottobre del 1943, la famiglia Sed riuscì però a mettersi in salvo, perché la loro casa si trovava verso la fine del ghetto e, avvisati in tempo, fuggirono ed andarono a vivere nella casa di alcuni parenti, ma nel Marzo del ’44 furono denunciati in cambio di soldi. È vero che in quel periodo si soffriva la fame, ma quanto vale la vita di tre donne ed un uomo?
Dopo l’arresto, si ritrovarono su un treno merci, stracolmo di gente e senza finestrini, un treno diretto ad Auschwitz … per noi un nome terribile, ma allora nessuno sapeva nemmeno quale fosse la destinazione. Fu quasi un sollievo quando il treno si fermò, perché il viaggio era stato un incubo ed il cartello con la scritta “Auschwitz” ancora non significava nulla ed invece era l’inferno.
Appena arrivato, dopo un viaggio terribile, fu diviso dalle sue sorelle e sua madre, in quanto gli uomini e le donne non potevano stare insieme.
Li fecero spogliare, li lavarono, consegnarono loro la divisa a righe con la stella di David, rasarono i capelli a zero e gli marchiarono sul braccio il numero A-5491. Da quel giorno Alberto era diventato un numero, un banale numero con una lettera davanti, senza identità né dignità.
Quel numero fu il suo nome per tutto il periodo passato nel campo. Un periodo che segna la sua vita, dove conosce e vede tante crudeltà a cui sembra impossibile un uomo possa arrivare.
Lui non capiva, era solo ed impaurito. Sentì alcuni parlare in francese, lingua che aveva studiato a scuola e quindi riusciva a capirlo e a parlarlo. Chiese aiuto e spiegazioni e gli spiegarono subitola cosa più terribile, cosa fosse quel fumo che usciva dai camini, e subito gli fu tolta dalla mente ogni speranza di rivedere la sua famiglia: se non erano idonee al lavoro, mamma e sorelle sarebbero finite nel forno crematorio perché “inutili”. Alberto non riusciva a crederci. Sentì imprecare in italiano e fu così che conobbe il suo “salvatore”. Infatti fu proprio lui, un uomo senza un braccio, a spiegare ad Alberto come funzionava la vita al campo; lui cercò di insegnargli come fare a vivere abbastanza a lungo dentro Auschwitz; fu lui che ricavò un coltello dal manico del suo cucchiaio per permettergli di tagliare l’erba e le radici delle piante, era importante, infatti, mangiare qualsiasi cosa. Quell’uomo gli raccomandò di irrigidirsi ogni volta che un tedesco gli si fosse avvicinato, perché le SS davano le spinte e se cadevi a terra finivi alle “docce”.
Ci ha raccontato molti particolari da cui si capisce che quei mesi di permanenza ad Auschwitz sono stati terribili, infatti anche se vivo, ne è comunque uscito pieno di segni e traumi. Ancora adesso non riesce a prendere un bambino in braccio perché al campo aveva visto fare alle SS il tiro a segno con i neonati lanciati in aria. Alberto non è più riuscito ad entrare in una piscina perché aveva assistito all’annegamento di un sacerdote che aveva osato indossare la tonaca. Non riesce ad indossare alcun oggetto d’oro o a stare su un vagone ferroviario chiuso…
Al campo a colazione si aveva una scodella di acqua, a pranzo una scodella di acqua e carote, qualche giorno anche patate, e a cena un pezzo di pane secco. Un giorno ad Alberto venne proposto di partecipare agli incontri di box come pugile, per il divertimento delle SS; ma doveva rimanere in piedi a qualsiasi costo, altrimenti sarebbe stato ucciso; in caso di vittoria avrebbe ricevuto, però, una doppia razione di cibo. Alberto accettò e riuscì a sopravvivere, ricevendo ad ogni incontro un doppio pasto.
Sopravvisse così fino a quando il campo non fu evacuato, per l’arrivo dell’Armata Rossa, ed ecco un inferno ancora peggiore: l’esperienza terribile della “marcia della morte”. Ci ha così raccontato di un nuovo inferno, di quando i tedeschi hanno obbligato i deportati a camminare per tre giorni e tre notti nelle lunghe e massacranti “marce della morte” dove continuamente si ritrovavano a camminare fra i corpi senza vita di uomini stremati dalla fatica. Quando mancava poco alla fine della marcia il giovane Alberto avvertì un forte dolore al fianco; si recò in infermeria aspettandosi una iniezione che lo avrebbe fatto morire. Ma il medico gli diagnosticò l’appendicite e lo operò, con grande stupore di Alberto: egli gli ricordava, infatti, il figlio che aveva perduto. Dopo quattro giorni, poté finalmente rimettersi in piedi, anche se debole; la guerra era finita.
Alberto viaggiò verso l’Italia, solo e senza la speranza di ritrovare qualche parente. A Roma ritrovò invece Fatina, l’unico membro sopravvissuto della sua famiglia. Fatina gli raccontò della morte della sorella Angelica, fatta divorare dai cani per puro divertimento. Negli anni successivi Alberto e Fatina si sostennero a vicenda. Alberto si è sposato e ha avuto figli e nipoti, ma il dolore dell’esperienza che ha vissuto non è passato. A distanza di tanti anni Fatina, che non aveva superato i traumi delle atrocità subite, si chiuse in se stessa, si ammalò e morì. Ancora oggi Alberto si sente in colpa per la morte di Fatina perché non ha saputo aiutarla e capire il suo dolore, perché pensa di non averla capita ed aiutata a tirare fuori quel terribile dramma che la donna non era mai riuscita a superare.
Dopo la morte di Fatina, dopo che per anni non aveva mai voluto raccontare cosa fosse accaduto ad Auswitz, per liberarsi di quel peso terribile, Alberto iniziò a raccontare la loro esperienza al colonnello dei Carabinieri Riccardi e ne è nato un libro intitolato “Sono stato un numero”.
È stato un incontro molto commovente ed interessante. Un conto è studiare e sapere ciò che accaduto attraverso i libri e le immagini, un altro è vedere l’espressione di una persona che con dolore racconta ciò che ha visto e vissuto.
Ringrazio Alberto, prima di tutto, perché ci ha fatto ascoltare le sue parole, perché ci ha donato un po’ del suo tempo e perché ha affrontato il viaggio da Roma a Ladispoli solo per noi e per averci dato questa opportunità davvero unica. Lui per me è come un eroe che ha voluto parlare con noi, per testimoniare un triste passato, superando la tristezza nel suo cuore. È stato emozionante pensare di aver conosciuto ed ascoltato un sopravvissuto all’olocausto che con coraggio ha vinto la sua battaglia e che con coraggio ha raccontato quella pagina orribile della storia con parole che arrivano dritte al cuore e noi ragazzi, oggi, rimaniamo storditi da tanta crudeltà. Ma come è stato mai possibile?!!! L’incontro con il sig. Alberto Sed è stato molto toccante dal punto di vista emotivo, questo perché mentre ci raccontava la sua storia, ho sentito quanta sofferenza ha provato. Durante l’incontro, mentre ci parlava, si è commosso profondamente, perché sono ancora vivi quegli avvenimenti come fossero sempre presenti, lui non può dimenticarli e noi dobbiamo non dimenticarli. L’incontro ha dato a tutti noi molta tristezza, ma anche la speranza ed il desiderio che questi avvenimenti non si verifichino più. Sta quindi a noi non dimenticare mai e non far dimenticare. Grazie infinite, Alberto! Attraverso la sua testimonianza, lei è fonte di speranza di una umanità futura libera da ogni pregiudizio, qualunque esso sia.
Alla fine dell’incontro, i ragazzi delle varie classi hanno fatto dono ad Alberto di alcune lettere, disegni e cartelloni che il nostro ospite ha tanto gradito e ha portato via con piacere; sappiamo che troveranno posto nel suo piccolo museo domestico.
Un grande grazie va alla nostra professoressa di Lettere, la prof.ssa Stefania Pascucci, a tutti i nostri professori e alla nostra scuola che ci hanno permesso di vivere questa incredibile esperienza di un passato, che non può e non deve essere dimenticato.