Combattere lo spreco si può, ma non basta manifestare • Terzo Binario News

Combattere lo spreco si può, ma non basta manifestare

Ott 20, 2013 | Blog, Santo Fabiano

Strano popolo il nostro: solitamente brontola e mormora; se è proprio risentito si ribella; al massimo dell’organizzazione, manifesta. Ma tutto si ferma lì. E chiunque sta al potere lo ha capito alla perfezione, infatti, si guarda bene dal dare importanza alle manifestazioni: le consente, le promuove, vi aderisce, persino vi partecipa, ma non modifica la propria linea. Chi sta al comando teme di più i “rompicoglioni” (chiedo perdono, ma è un termine tecnico che non ha sinonimi) isolati, quelli che aggrediscono un problema, ma lo fanno in modo definitivo, studiandolo fino in fondo e chiedendo, in tutte le modalità possibili di portarlo a soluzione, come loro intendono, piuttosto che i manifestanti con buoni e approfonditi argomenti.

Non ricordo una manifestazione recente (degli ultimi cinquant’anni) che abbia fatto desistere un uomo di governo nazionale o locale. E ne abbiamo viste! Io ero tra quelli che si è trovato a Montecitorio a manifestare indignazione per la riproposizione del presidente ribollito, presagio delle “larghe intese”. Ma non è cambiato nulla. E quando Fassina, mi ricordo, l’unico a sentire il dovere di fermarsi, cercò di dialogare, rischiò il linciaggio dando così ragione a chi ritiene che con la piazza non si dialoga. E’ meglio ignorarla: tanto, a ora di pranzo o di cena, tutti andranno a casa.

Manifestare è un gesto democratico e dimostra senso civico, oltre al coraggio e alla determinazione di organizzarsi e scendere in piazza per un problema reale, meglio ancora se diffuso. Ma come accade per ogni situazione comunicativa, perché la manifestazione abbia senso, è necessario che vi sia un interlocutore, cioè qualcuno che si senta destinatario dell’iniziativa e interessato alle richieste, meglio, alla considerazione dei richiedenti.

Purtroppo, sempre di più, ormai, manifestare non ha più alcun senso o effetto. Qualche anno fa abbiamo assistito persino a uno sciopero generale organizzato dai tre sindacati, concluso con una manifestazione sotto le finestre di Palazzo Chigi. Peccato che il Governo fosse dimissionario da qualche giorno e che in quelle stanze si trovava solo qualche commesso di passaggio o qualche solerte funzionario che, anche nella migliore delle intenzioni, non avrebbe potuto accogliere neppure delle richieste.

Ma, con ogni probabilità, se il palazzo fosse stato abitato l’effetto sarebbe stato lo stesso. E le ragioni sono sotto gli occhi di tutti: gli abitanti dei palazzi del potere hanno capito che le manifestazioni, come si dice, “lasciano il tempo che trovano”. E poi, le persone “per bene” non hanno il tempo di andare in piazza e se lo fanno, manifestano con moderazione; gli altri, invece, quelli “meno per bene”, stanno già al potere o comunque hanno altri canali per ottenere ciò che vogliono.

Il sistema democratico, quindi, si è evoluto e richiede “altri metodi di partecipazione”, per esempio, una più forte consapevolezza civile e un presidio attento. Non basta più andare a votare (ancor meno astenersi) perché ogni partito ha il suo “zoccolo duro” di clienti e persino di elettori in buona fede, che sanno assicurare, a qualunque condizione, il proprio sostegno (i primi per ragioni di profitto, i secondi per ragioni di appartenenza, ma l’effetto è lo stesso).

Purtroppo non serve nemmeno manifestare. Non perché non sia un gesto partecipativo, ma per la semplice ragione che non produce alcun effetto. E ciò accade proprio perché non vi sono interlocutori disposti a “preoccuparsi” per una manifestazione e a prendere nella giusta considerazione le questioni rappresentate.

E non è nemmeno una questione di numeri. Se scendessimo in piazza con cento persone (chi ha esperienza sa che è impegnativo) o persino con il doppio (impegno maggiore) o meglio, con cinquecento o mille o centomila persone (portando l’impegno e l’organizzazione a livelli estremi) l’effetto sarebbe sempre lo stesso.

Chi sta al potere vuole stare tranquillo, non vuole problemi. E ritiene persino che se dimostra di “cedere” alle pressioni dei manifestanti, rischia di perdere la propria leadership. E’ quello che pensano in molti. Mi viene in mente un povero personaggio locale che per mantenersi sul predellino istituzionale ha scelto la strada del “negazionismo sedativo” per la quale i problemi non esistono, tutto è in ordine e le manifestazioni, conseguentemente, esprimono “disordine”. Chi vi partecipa rischia di essere ritenuto un emarginato (se protesta), un problema di ordine pubblico (se manifesta) o un problema politico (se si organizza).

E per ciascuna di queste situazioni c’è un rimedio: per chi protesta c’è l’isolamento (è uno sfigato), per chi manifesta c’è il richiamo alle regole della convivenza civile (turba la quiete pubblica), per chi si organizza c’è lo strumento dell’accerchiamento politico (allo scopo di evitare che la forza politica diventi una cosa seria e preoccupante).

 

Ma tutto ciò è solo un’analisi. E non vuole invitare alla rassegnazione o prendere atto che non vi sono strumenti. Al contrario: il sistema democratico si è evoluto e ha rafforzato alcuni suoi aspetti, in direzione (inevitabilmente) del consolidamento delle posizioni del potere. Ma lo fa senza una legittimazione consapevole (il voto emotivo) e soprattutto in violazione di ogni regola etica e persino delle norme di legge.

Un sistema democratico così evoluto, accanto agli strumenti del voto e della manifestazione del pensiero, richiede un altro importante atteggiamento “civico”: il presidio.

Chiunque di noi, se avesse un giardino, starebbe attento a curarlo e a preservarlo da infestazioni o parassiti, ne seguirebbe ogni angolo, osserverebbe con attenzione ciò che ha seminato, per raccoglierne i frutti o vederne sbocciare i fiori, adotterebbe tutte le misure, anche le più drastiche per assicurare che lo spazio verde esprima il meglio e nel modo ordinato. Insomma: non si limiterebbe a osservare, parlarne con il vicino, sfogarsi al bar, mormorare negli ascensori o persino manifestare in piazza. Ma soprattutto, se avesse un giardino in disordine e infestato da piante parassite, difficilmente sentirebbe il bisogno di andare in piazza per manifestare (per esempio) che i giardini degli altri sono sporchi.

E invece accade che siamo tutti affascinati dai temi mondiali, europei o persino nazionali, ma poco attenti alle questioni che accadono a pochi metri dal proprio naso e ci riguardano direttamente.

Mi viene in mente, in particolare, la pregevole iniziativa intrapresa da alcuni per manifestare contro gli sprechi di Stato. Ribadisco che si tratta di una campagna meritoria, ma, lo confesso, non comprendo se vuole essere solo la “manifestazione” di una esistenza, di posizione o vuole “realmente” portare alla riduzione degli sprechi.

E’ evidente che andare in piazza su questi temi è una buona cosa, soprattutto se poi i manifestanti (difficilmente numerosi), a conclusione dell’iniziativa si ritrovano a prendere un caffè a Sant’Eustachio. Ma non credo che ottenga alcun risultato, oltre al piacere di incontrarsi, di “farsi vedere” in piazza e di condividere un caffè.

La battaglia contro gli sprechi non è un tema da portare o urlare sotto le finestre del potere, soprattutto in un momento in cui i maggiori partiti hanno deciso di tagliare tribunali e ospedali per garantire ai vertici e a se stessi stipendi e pensioni oltre ogni immaginazione reale. E i tagli a tribunali e sanità li hanno fatti proprio “per ridurre gli sprechi”, così come i vincoli alle assunzioni, la riduzione degli interventi sociali, ecc. A mio giudizio è probabile che dobbiamo, innanzitutto definire che cosa può intendersi come “spreco”, altrimenti rischiamo, come accade, di tagliare solo i “costi non protetti” e mantenere intatti tutti i privilegi.

 

Ma la questione ha radici profonde e ha una sola soluzione: la prossimità, cioè l’attenzione a quello che ci riguarda direttamente, che succede intorno a ciascuno noi, di cui siamo responsabili diretti e destinatari.

E’ proprio questo che mi domando: che senso ha andare in piazze lontane e trattare temi che richiamano “massimi sistemi” come il cuneo fiscale o lo spread, sui quali non si riuscirà mai a intervenire, in questo modo, mentre invece abbiamo strumenti veri ed efficaci per manifestare e intervenire nella nostra realtà locale?

Capisco che può sembrare più affascinante affrontare temi nazionali. E forse è più esaltante rivolgere una protesta verso una finestra di uno “studio importante”, anche se vuoto. E capisco persino che, al contrario, può apparire poco nobile doversi confrontare con amministratori locali improvvisati, affaristi maldestri, imprenditori senza imprese, professionisti senza mestiere, saltimbanchi senza pubblico, ecc.

Ma è proprio lì, invece che si deve intervenire.

Non a caso, nel 2003, la Costituzione è stata modificata (nel titolo V) nel senso di attribuire alle autonomie locale l’esclusività delle funzioni amministrative. Ciascuno di noi è un cittadino appartenente a una comunità locale, la cui espressione politica diretta è il Comune. Ed è in quella sede che deve manifestare la propria partecipazione, il proprio senso di appartenenza e di impegno democratico.

Non c’è nessuna ragione che giustifichi una disattenzione locale a favore di un impegno nazionale, se non la consapevolezza di preferire ampi dibattiti “salottieri”, magari allo scopo di trovare un canale per essere eletti.

La democrazia è impegno e partecipazione, proprio là dove sono iscritto come cittadino, cioè nella mia realtà locale, tra la gente che mi conosce e sa dove abito, come mi comporto nelle relazioni sociali, come utilizzo i miei spazi e (soprattutto) quale opinione ho della gestione della mia città e che cosa intendo fare per migliorarne le condizioni di vita individuale e sociale.

E’ negli enti locali che si verificano le maggiori “disattenzioni” e gli sprechi più gravi. E’ certamente grave che lo Stato sprechi i nostri soldi a favore di iniziative di dubbia utilità. Ma è ancora più grave che l’amministrazione comunale incrementi le imposta locali per assicurare privilegi e rendite di posizione, che svenda il proprio territorio a favore di famiglie ristrette di improvvisati imprenditori del mattone, che intraprenda transazioni tutte svantaggiose e improduttive, che destini le risorse, non allo sviluppo, ma al consolidamento di alleanze, che attribuisca appalti e lavori a società di comprovata vicinanza e reciproca convenienza, ecc.

Anche perché si tratta di persone che conosciamo, che incontriamo ogni giorno e rispetto alle quali non abbiamo alibi che giustifichino il nostro silenzio.

 

Se veramente ci stanno a cuore gli sprechi dobbiamo partire da ciò che è “prossimo” e vicino a noi. E se ci piace manifestare insieme (ottima iniziativa) facciamolo a sostegno di iniziative locale (un comune qualsiasi) a sostegno di comitati spontanei o di cittadini accorti.

Una manifestazione a sostegno di una gestione oculata, in un qualsiasi comune, avrebbe effetti mille volte maggiori rispetto a quella svolta in una nobile e sorda piazza della nostra capitale.

Se vogliamo combattere lo spreco, anche quello di Stato, partiamo da lì. Mobilitiamoci, ma a sostegno di cittadini verso amministrazioni trasparenti e oculate.