Ci risiamo! Come se il Paese ne avesse bisogno ci siamo esibiti in un altro scontro dove, “per vincere facile” chi sta al governo ha giocato la carta di avvantaggiarsi dell’astensionismo.
E siccome il nostro popolo, attivo e persino aggressivo nei bar e sui social, si manifesta schivo nei confronti della partecipazione politica, quella vera, nonostante la schiacciante prevalenza dei sì, l’esito delle urne, volendo stare dalla parte dei furbi, può essere letto come un no.
In verità lo sapevamo che si andava a votare per una questione, ma il significato era un altro. Ed è inutile fingere di non saperlo. Se il tema oggetto del referendum di oggi fosse stato quello del rinnovo delle concessioni alle trivelle entro le dodici miglia, avremmo assistito a confronti sul tema con approfondimenti sugli effetti “reali” della decisione referendaria. Ma non è stato così.
Andiamo per ordine:
- il problema non lo hanno creato le regioni o gli elettori, ma una strana legge, appena approvata, che, inopinatamente, nella confusione normativa che caratterizza il nostro sistema politico, decide di elargire ai petrolieri (che insieme ai banchieri sono i sostenitori della nuova “democrazia”) benefici fiscali insieme alla certezza di ottenete concessioni senza un limite di scadenza (in palese violazione con i principi del diritto). Comprenderebbe anche un bambino che una “concessione senza una scadenza” equivale a una donazione di un bene pubblico a soggetti privati. Peraltro, accade spesso che quando il giacimento non è più produttivo, la piattaforma viene semplicemente abbandonata, con tutte le conseguenze, sia ambientali sia paesaggistiche, sia di diritto all’utilizzo dello specchio di acqua. Insomma: la questione non si sarebbe posta e le trivelle avrebbero continuato a lavorare fino alla scadenza o al prossimo rinnovo, se il Governo non avesse sentito il bisogno di approvare una legge “singolare” che toglie alle regioni ogni possibilità di decisione sulle proprie coste.
- l Governo, quindi, ha adottato un provvedimento legislativo singolare che, in barba al principio della prevalenza dell’interesse pubblico, avvantaggia i soliti noti e accende, nei cittadini, il sospetto che chi guida il Paese non lo faccia proprio nell’interesse della collettività. E ciò che era un sospetto è stato confermato dal contenuto delle intercettazioni che hanno rivelato rapporti diretti, camuffati persino da relazioni amorose, tra ministri e petrolieri (che si aggiungono a quelli tra ministri e banchieri). Ma queste rivelazioni non hanno generato nessuno scandalo e nessuna smentita, come se si trattasse di una “normalità”. Invece, come ai tempi di Mussolini con il caso Mattei (e si trattava sempre di petrolio) abbiamo assistito all’assunzione diretta di responsabilità in capo al Premier, che, in pratica ha detto: “la situazione non è pulita, ma l’ho voluta io! che volete?” diciamo che non si tratta proprio di una bella pagina di bella democrazia e speriamo che non rappresenti uno stile emulato o persino promosso in futuro. E’ evidente che la questione non si sarebbe posta se, una volta venuta alla luce, piuttosto che lasciare ogni cosa com’è, si fosse corso ai ripari, magari riformando quella disposizione “negoziata”. Insomma, se avessimo colto nelle iniziative legislative del Governo il perseguimento di un interesse per la nazione e non per le lobby dei petrolieri. Ma così non è stato.
- Al di là di ogni situazione, in ogni caso, la scelta di proporre un referendum rientra, tra i diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta costituzionale e non può essere intesa come un oltraggio o come occasione di scontro (a meno che gli interessi in gioco siano altri). In un contesto democratico, ma realmente democratico, la richiesta di invitare la popolazione a esprimersi su un quesito, allo scopo di conoscerne l’opinione (peraltro su un tema che riguarda tutti) dovrebbe essere considerata come luogo di confronto e approfondimento sulla questione. Ma così non è stato. E comunque, un governo civile, di un Paese democratico, avrebbe provato a illustrare le proprie ragione e invitato il popolo a votare a sostegno della proprie argomentazioni. Ma così non è stato. A conferma che “non esistono argomentazioni lecite a favore dell’iniziativa governativa”, il Presidente del Consiglio a cui si è aggiunto il redivivo ex presidente della Repubblica, senza alcun pudore, hanno tagliato corto. Piuttosto che illustrare la ragioni a difesa delle scelte governative, hanno imposto il silenzio e proposto ai cittadini di non andare a votare. Cioè, di non occuparsi della vicenda… perché le questioni che riguardano l’economia, l’ambiente, le risorse, le concessioni… non debbono essere trattate con i cittadini, ma con “i diretti interessati”. E’ evidente che ciò rafforza il sospetto che le decisioni vengano assunte in “altri” contesti e che gli interessi in gioco non riguardino il benessere del Paese, ma dei “soliti noti”. E poiché il tutto accade in “salsa democratica”, troviamo anche qualche buontempone che, per spirito di posizione, trova il cattivo gusto di sostenere la dissennatezza del governo (e magari lo aveva fatto anche con il caso di Banca Etruria). Che dire? La questione non si sarebbe posta nei termini attuali se chi ci governa avesse avuto più cura per la partecipazione e l’informazione e con spirito democratico, magari promuovendo un dibattito vero e senza i nascondenti e le menzogne che circolano.
- Non occorre spendere molte parole per rilevare la stranezza del fatto che il Governo ha deciso di celebrare il referendum in una data diversa rispetto a quella delle elezioni amministrative, causando un aggravio di svariati milioni di euro. Evidentemente, nell’era della spending review e della ricerca del risparmio, qualcuno, nel palazzo, ha ritenuto che il costo aggiuntivo fosse giustificato e avesse un corrispondente “controvalore”. In poche parole, in politica, come in guerra, tutto diventa lecito. E per giustificare questo ragionamento, la consultazione si trasforma in uno scontro, piuttosto che in un confronto.
Rimane, comunque il fatto che, al di là di ogni trivella, chi ha consigliato di non andare a votare (con disprezzo verso ogni conquista di partecipazione e democrazia) ha anche riformato il sistema in modo da sottrarre agli elettori la possibilità di scelta in occasione delle elezioni, ha riformato il Paese ricorrendo alla scorciatoia della “fiducia” o persino alla “tagliola”, ha abolito un ramo del Parlamento e sta portando a termine un processo di centralizzazione estrema, allo scopo di potere governare senza la necessità di coinvolgere popolazioni e territori. E’ evidente che l’invito a non votare è un invito alla tacita sottomissione. E chi non ne ha avvertito il pericolo (o persino lo ha sostenuto) evidentemente, ha già fatto il “passo” scellerato. E magari, da perfetto suddito, avendo appreso degli esiti del referendum, esulta persino. Ciò che mi sorprende di più e mi rammarica è che mentre “su, in alto” fanno affari con la democrazia, noi, “quaggiù” siamo così stupidi da prendere le parti di uno o dell’altro, piuttosto che riconoscere che dovremmo avere maggiore cura della nostra società e dello Stato, al di sopra degli interessi di individui e di gruppi.