Domenica 16 marzo si è tenuto in Crimea il referendum per sancire l’indipendenza della regione da Kiev e la conseguente annessione alla Federazione Russa. Scontato l’esito della consultazione vista la massiccia presenza di russofoni nella penisola regalata dall’Unione Sovietica all’Ucraina nel lontano 1954. Un vero e proprio plebiscito. Il 96,6% degli elettori ha votato per il ricongiungimento con Mosca. Una votazione decisamente sui generis vista la consistente presenza di forze armate russe a presidio dei seggi, anche se il Cremlino non conferma.
Inoltre, applicando alla lettera il principio della trasparenza, le autorità hanno predisposto urne di vetro dalle quali era possibile osservare senza filtri quella che era stata la preferenza dell’elettore. Ma fatti due conti, alla Russia conviene realmente utilizzare il pugno di ferro ed isolarsi dal resto della Comunità Internazionale per ottenere l’annessione della Crimea? Si, i vantaggi strategici dal punto di vista militare sarebbero notevoli. Il controllo della Crimea e dei suoi porti permetterebbe alla Russia di ottenere uno sbocco diretto sul Mediterraneo, aspirazione che il paese persegue sin dall’era degli zar.
Già nel 2008, con l’affaire Georgia, Vladimir Putin applicò quella politica di potenza di stampo novecentesco alla quale il Presidente russo sembra essere particolarmente affezionato. A maggior estensione territoriale corrisponde maggior potere e prestigio. Una posizione decisamente anacronistica quella che pare aver assunto il Cremlino negli ultimi tempi. Anche chi parla di Guerra Fredda 2.0 pone un paragone che non trova riscontri nella realtà dei fatti. Sono cambiate le relazioni politiche, economiche e sono notevolmente differenti i rapporti di forza. Il mondo non è più suddiviso in due blocchi egemoni.
Come sottolinea Gideon Rachman sul “Financial Times”, nel 1968, quando le truppe sovietiche invasero la Cecoslovacchia, Mosca non aveva un mercato azionario. Oggi la situazione è differente. Il lunedì successivo all’invio di truppe russe in Crimea, la Borsa di Mosca ha subito un repentino crollo del 10%, trascinando al ribasso anche i titoli di Gazprom e Sberbank. La situazione crea il panico tra investitori e oligarchi russi che temono per la tutela delle proprie enormi finanze.
E sono proprio i grandi ricchi, gli uomini d’affari e i grandi imprenditori che non vedono di buon occhio l’isolazionismo economico (e politico) nei confronti dell’Occidente. L’economia della Russia è strettamente interconnessa a quella europea e statunitense, e una possibile crisi nei rapporti tra il paese e le elite finanziarie Occidentali rischierebbe di far piombare il paese nel caos. Gli oligarchi di Mosca durante gli ultimi anni hanno investito notevoli somme di denaro in Europa e nel resto del mondo. Miliardi di dollari giacciono al sicuro nei numerosi paradisi fiscali sparsi per il globo e il grandi oligarchi russi tremano al solo pensiero di possibili ritorsioni da parte dei governi occidentali nei loro confronti.
Un certo nervosismo è stato avvertito nell’ambiente anche dopo la minaccia di possibili sanzioni economiche da parte della Comunità Internazionale. Per comprendere il perché la Russia non possa fare a meno dell’Europa, e dell’Occidente in generale, basta analizzare qualche dato. Il 70% delle esportazioni del paese riguarda gas e petrolio, un quarto dell’intero prodotto interno lordo, che hanno nell’Europa un fidato e necessario compratore. Inoltre l’80% delle esportazioni totali è diretto verso ovest.
Il volume degli scambi commerciali tra Mosca e i paesi dell’UE incide per l’1% sul pil di quest’ultima, ma per ben il 15% su quello della Russia. Allo stesso tempo anche l’Europa non può rinunciare all’energia proveniente dalla Russia, nonostante lo shale gas americano. In questo momento storicamente delicato, Mosca e Bruxelles hanno divergenze soprattutto per quanto riguarda la questione della sovranità e dei diritti umani, gli accordi di associazione e l’allargamento europeo verso oriente ma soprattutto opposte sono le posizioni di Ue e Russia per quanto concerne la delicata questione energetica.
La prima preme per allargare il numero dei fornitori e a Mosca questo non fa piacere. Nell’ottica di una liberalizzazione del mercato interno si inserisce infatti l’avvio della procedura per abuso di posizione dominante avviata da Bruxelles nei confronti del colosso Gazprom. Infine va sottolineato come nelle ultime settimane il Presidente Putin si sia battuto come non mai per l’affermazione e la difesa del principio di autodeterminazione dei popoli, uno dei pilastri fondamentali su cui fonda le proprie radici l’ONU.
Il Capo di Stato russo si è spinto addirittura oltre, prendendo a paragone l’indipendenza del Kosovo alla quale il Cremlino si è sempre fermamente opposto. Come scrive Marie Jégo su “Le Monde”: “la Federazione Russa ha ben 21 potenziali Crimee, cioè repubbliche autonome (Cecenia, Inguscezia, Carelia, Baschiria, Udmurtia…) che un giorno potrebbero chiedere un referendum per l’autodeterminazione”. Il 4 marzo Vladimir Putin ha dichiarato: “La mia opinione è che solo i cittadini che vivono in un determinato territorio possono e devono decidere del loro futuro …”. Parole che, rispetto alle politiche applicate da Mosca nella storia recente, sembrano essere leggermente in contraddizione con l’operato del Cremlino.
Putin sa benissimo che compromettere i rapporti politici, ma soprattutto economici, con le potenze occidentali assesterebbe un colpo durissimo all’economia russa. E’ pronto, Vladimir, a correre un rischio del genere? E’ pronta invece l’Europa a rinunciare all’energia russa? Se Mosca dovesse decidere di chiudere i rubinetti del gas si aprirebbe una crisi energetica di proporzioni enormi. Uno scenario catastrofico destinato, fortunatamente, a rimanere solo fantapolitica. Le due entità, Russia e Ue, non possono fare a meno l’una dell’altra, oggi più che mai. Quello che sarà della Crimea, però, è tutto da vedere.
