
LOS ANGELES, CA – DECEMBER 03: Entertainer Beyonce performs on stage during “The Mrs. Carter Show World Tour” at the Staples Center on December 3, 2013 in Los Angeles, California. (Photo by Larry Busacca/PW/WireImage for Parkwood Entertainment)
di Ginevra Amadio
La tempesta perfetta ha il nome di una bevanda e porta la firma di una delle più grandi cantanti pop soul degli ultimi tempi. Lemonade ha sconvolto il mondo e fatto di Beyoncé la regina delle donne nere. Perché dire paladina è riduttivo, parlare di afroamericane fuorviante. L’artista ex Destiny’s Child è cresciuta e si è fatta epitome di una realtà complessa e oltraggiate. Ha dato voce alla rabbia repressa, ha trasformato se stessa in un avatar che il pubblico può impugnare per vivere in second life tutte le sfaccettature di un’intimità che non è mai stata così universale. Che abbiano da ricredersi i siti di gossip: Lemonade non è un disco – un visual e concept album per l’esattezza – su Jay Z, sui tradimenti di Jay Z, sul machismo egoista di Jay Z. Lemonade è il grido di battaglia di una donna che va avanti, si rialza da sola, combatte contro il mondo anche se questo prova a schiacciarla col suo peso.
Il processo di guarigione che ogni donna intraprende è interpretato da Beyoncé come un viaggio di autocoscienza che si snoda sui binari dell’identità razziale, della solidarietà femminile, della forza che riaffiora quando si è sul baratro del cuore. I versi della poetessa somala Warsan Shire accompagnano le parole che di Beyoncé sono forza e corazza contro i colpi inferti dalla sorte, quella di essere ricca, bella e famosa e per questo portavoce di coloro che vivono nell’ombra senza avere le luci degli spotlights a illuminare le proprie debolezze. I versi della cantante nata a Houston, nel Texas più razzista della bella America sono lame pronte a trafiggere decenni di stereotipi e sottomissioni, con le donne nere costrette a piegare la testa e ricevere in silenzio le botte dei mariti, i tradimenti reiterati, le accuse di troppo amore e troppo egoismo, in un gioco di opposti che fa del male un’eredità trasmessasi nel tempo. «Mi ricordi mio padre – un mago, capace di esistere in due posti nello stesso istante / Sei nella tradizione degli uomini del mio sangue, torni a casa alle tre del mattino e mi dici bugie», e se Jay Z si sollazza tra le braccia di Rita Ora, o di Rihanna, Beyoncé combatte da guerriera silenziosa che si fa leonessa, è la voce delle donne che da storia d’amore e d’abbandono trovano la forza per guardare avanti.
Generazioni di lavoratrici all’ombra del maschio, madri premurose e artiste forti, additate e perseguitate ancora oggi, nella splendida era Obama, per il loro essere nere. Come Serena Williams, derisa per la sua fisicità mascolina che la rende invincibile in campo ma “imbarazzante” nella vita, perché gli sguardi sono lance e trafiggono la pelle. Nel video twerka anche se nell’immaginario patinato può farlo solo Miley Cyrus, è bella, sensuale, fiera nel suo potere black. E ancora Quvenzhané Wallis, attrice dotata e schernita per i suoi capelli crespi, Sybrina Fulton, Lezley McSpadden e Gwen Carr, delle quali nessuno conosce i volti né i nomi perché sono quelli dei figli ad essere tristemente noti: Trayvon Martin, Michael Brown ed Eric Garner, neri uccisi dalla polizia bianca, vittime di quel fatal shot di cui i giornali preferiscono parlare. Sono le donne messe da parte, che dall’amore e dal dolore portano avanti la lotta di e per una comunità la cui esistenza una certa idea di mondo sembra ignorare.
Beyoncé canta la forza delle donne nere che sciolgono i lacci delle convenzioni imposte, unendole in un unico, grande, canto di ribellione: «Ho bisogno anche di libertà. Queste catene le spezzo da sola». Nella sofferenza si affonda ma non si annega, grazie Beyoncé Giselle Knowles per essere, anche solo una volta, la voce di tutte noi.