A 50 anni di distanza, il Principe Totò è ancora la salvezza dell'allegria • Terzo Binario News

totòdi Ginevra Amadio

C’è veramente poco da dire su una vita furibonda e frenetica spentasi a soli 69 anni in un appartamento romano di Viale Parioli. C’è poco da dire anche perché le parole, se mal calibrate, usurano le immagini, e quella di Totò è un immagine pagana quanto mai sacra, nel senso che forse solo un napoletano – come lui, del resto – riuscirebbe a intendere appieno.

E allora se ne è parlato fin troppo in occasione di questi 50 anni passati senza la sua impareggiabile allegria. Sembra quasi che sia scattata, da anni in realtà, una corsa alla compensazione, volta a recuperare il tempo perduto a esecrare il suo talento, la sua spontaneità, la sua arte. Per Pasolini «la sua maschera riuniva perfettamente l’assurdità e il clownesco con l’immensamente umano», Umberto Eco si chiedeva come avrebbero mai fatto a intendersi due popoli di cui uno ignorasse Totò. E giù da lì citazioni più o meno note, tentativi di celebrazione, roboanti titoli di giornale che dal 15 aprile 1967 proponevano già un ritratto diverso, più nobile, di quello realizzatogli in vita.

È per questo che gli omaggi, adesso, si sprecano nel senso letterale del termine, suonano stantii, già letti, superflui nel modo che solo i riconoscimenti postumi ci hanno abituato a intendere. Non resta altro da fare, allora, che ripercorrere la sua storia, correndo consapevolmente il rischio di risultare banali. Ma l’arte è arte e non ha bisogno di panegirici, tanto più se confezionati ad hoc per ricorrenze e ripulirsi le coscienze dalla polvere del tempo perso. Totò del resto, che visse sempre nell’angoscia di non essere ricordato se non per la sua maschera farsesca, avrebbe preferito di certo quest’approccio. Non c’è niente di peggio che l’essere celebrati per ciò che non si è, tanto più se quel che si è mostrato, in vita, è stato trascurato. Più che un ricordo suona come una beffa, e davvero non se ne sente il bisogno neanche dopo tutti questi anni.

Figlio illegittimo del Barone Giuseppe De Curtis e di Anna Clemente, Totò nasce il 15 febbraio 1898 nel rione Sanità come Antonio Clemente. Un passato da irregolare, figlio di nessuno, che costituisce la naturale e folklorica rivalsa di un artista che nel tempo, sentendosi principe «di sangue, ma non di diritto» compirà svariati tentativi di farsi adottare da nobili del tempo, per ereditarne titoli e onori negati.

Dopo anni di lotte e puntigliose indagini genealogiche il tribunale di Napoli arriverà a concedergli il diritto di chiamarsi Antonio Griffo Focas Flavio Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, altezza imperiale, Conte Palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, Esarca di Ravenna, Duca di Macedonia e di Illiria, Principe di Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponte di Moldavia, di Dardania,del Peloponneso, conte di Cipro e di Epiro, conte e duca di Drivasto e Durazzo. Un tormentato blasone motivo d’orgoglio, che porterà a ricordarlo, per sempre, come Principe: quello vero, dei natali importanti, e quello metaforico, della risata.

Perché di lui, più di ogni altra cosa, resta ancora oggi, come punto fermo, la nobiltà sociale, con la rara capacità di fare ridere il pubblico senza una sola volgarità. Non piaceva però ai cinefili pomposi i quali, nonostante il trionfo a Cannes per l’iconica interpretazione in Guardie e Ladri, non esitava a giudicare i suoi film rozzi, rivolti alla massa poco alfabetizzata, incapaci di stimolare una visione cerebrale, la sola e unica da essi contemplata.

Per questo durante la sua carriera il Genio della risata fu amato solo da pochi registi, con Mario Monicelli in testa che lo diresse nel già citato Guardie e ladri, Totò e i re di Roma, Totò e Carolina e l’insuperabile capolavoro dal cast stellare de I soliti ignoti. Arrivarono poi Pier Paolo Pasolini, che lo volle fraticello in Uccellacci e uccellini e Federico Fellini, per il mai realizzato Viaggio di G. Mastorna. E ancora Lattuada, Risi, Bolognini; tutti affacciatesi a metà strada nel cammino di Totò, per un finale di carriera nel segno che l’artista, sin da subito, avrebbe meritato.

È facile oggi parlar bene del Principe De Curtis, anche se a un’indagine più attenta non è poi del tutto vero che Totò non fu apprezzato dalle personalità che contano. A guardarlo saccentemente e con disprezzo era la piccola borghesia del perbenismo, chiusa nello splendido isolamento morale di un’arte considerata superiore e inaccessibile da porte “altre”. Gli intellettuali illuminati come Aldo Palazzeschi, Alberto Savinio e Massimo Bontempelli lo adoravano; Robert Benayoun, che veniva dall’area surrealista, già dagli anni ’50 esaltò la sua genialità perché stimava e frequentava l’Italia più semplice.

Tutto ciò che incarnava il popolo di allora, fatto di proletari, artigiani, piccoli impiegati e contadini intrisi d’analfabetismo, trovava in Totò la più alta espressione. Se parlare di sublime appare azzardato, quantomeno per il compito di dover chiamare in causa illustri modelli e pensatori, sembra al contempo impossibile prescindere dal riconoscimento di una capacità superiore di rendere una realtà nuova, e quanto mai sconosciuta, nel più alto sistema di espressione stilistica.

C’era sincerità, senza alcuna affettazione, nell’arte di Totò. Riusciva a rendere le sue avventure cinematografiche divertenti e reali, capaci di parlare di fame vera (la scena degli spaghetti in Miseria e nobiltà) e di distruggere, a colpi di comicità, l’intera immagine del potere (Totò a colori, col memorabile sfottò dell’onorevole Trombetta).

È per questo che oggi, a cinquant’anni dalla sua morte, più di tanti onori dobbiamo rendere un grazie sincero a questo grande artista. Un uomo eclettico, dalla genialità interpretativa, che ha saputo incarnare una modernissima maschera della commedia dell’arte raccontando le difficoltà del vivere quotidiano del dopoguerra e le spocchiose e grottesche trasformazioni degli italiani degli anni del boom economico. Ancora adesso, dopo tanto tempo, le sue battute hanno il raro potere di stimolare risate fragorose, liberatorie. Non è da tutti, e vale più di tanti omaggi e ricordi obbligati.

Pubblicato sabato, 15 Aprile 2017 @ 16:53:21     © RIPRODUZIONE RISERVATA