di Ginevra Amadio
Se Hans Robert Jauss avesse potuto descrivere l’estetica della ricezione ai tempi delle serie tv avrebbe forse trovato in The Assassination of Gianni Versace l’esempio più calzante. Perché nel panorama odierno, costellato da prodotti sicuramente più validi dell’ultima fatica di Ryan Murphy, trovare un’opera che sconvolga in tal modo l’orizzonte d’attesa del fruitore comune non è cosa ovvia. E fa del secondo capitolo di American Crime Story una serie vincente al di là della sua effettiva riuscita complessiva.
Che qualcosa stonasse rispetto alle aspettative lo si poteva capire già dal polverone mediatico sollevato da giornali e tv nei giorni immediatamente precedenti alla messa in onda italiana (il 19 gennaio scorso). La comprensibile presa di distanza della famiglia Versace (che non ha dato il placet «né ha avuto alcun coinvolgimento nella serie televisiva dedicata alla morte di Gianni poiché non ha autorizzato il libro da cui è parzialmente tratta [Vulgar Favors, della giornalista di Vanity Fair Maureen Orth] e non ha preso parte alla stesura della sceneggiatura») ha dato il via a un valzer scomposto di analisi delle puntate tra il (melo)drammatico e patetico, con giornalisti pronti addirittura a dichiarare di voler «abbracciare Donatella» e tutto il pubblico dinnanzi a un tale scempio.
Il problema però è che si manca totalmente il bersaglio nel momento in cui si parla di The Assassination come di un oltraggio voyeuristico e pretestuoso alla figura del compianto genio creativo. Questa non è una serie su Gianni Versace, ma sulla sua morte. Lo stilista è usato in quest’ambiziosa produzione Fx allo stesso modo della sua Medusa nel mondo della moda: è un brand scintillante volto a richiamare l’attenzione. Il nucleo della storia invece abita altrove, e non può che intrecciarsi con la patologica esistenza del serial killer dal QI elevato Andrew Cunanan. Chi ha lamentato l’inopportuna centralità dell’assassino non ha forse compreso a fondo in che modo avviene lo scarto effettivo rispetto all’orizzonte di attesa. Oppure, molto più semplicemente, non ha realizzato che il compito di American Crime Story non è quello di celebrare un’icona ma narrare casi giudiziari di cronaca nera dal forte impatto mediatico. La prima stagione, dedicata al caso O.J. Simpson, ha forse contribuito a portare fuori strada buona parte degli spettatori, rimasti piacevolmente affascinati dalla ricostruzione dell’affair che tenne 75 milioni di persone incollate alla televisione durante l’inseguimento della Ford Bronco guidata da The Juice sulle autostrade di Los Angeles. Ma al centro di quella serie doveva esserci Simpson perché lui era il sospettato. Suo era il processo maldestramente condotto, sua la prova del guanto, suoi gli avvocati in assetto di guerra. Non c’era Nicole, l’ex moglie massacrata, né l’amico Ron Goldman cui toccò la stessa sorte. Essi facevano capolino solo lì, fuori dal condominio all’875 di South Bundy Drive dove furono ritrovati ore dopo essere stati uccisi. Tutto il resto spettava ad O.J., l’assassino miracolato o il nero incastrato, emblema di un’America dalle mille facce e dalle infinite contraddizioni.

Édgar Ramírez as Gianni Versace
E lo stesso avviene qui, in questa seconda stagione in cui l’estro di Ryan Murphy si fa più sconvolgente e sperimentale; Gianni si aggira per le sale ricoperte d’oro di Casa Casuarina a Miami, cammina lungo Ocean Drive per andare a comprare i giornali e poi, sui gradini dell’ingresso di quella Villa ristrutturata a sua immagine e somiglianza, viene freddato da un ragazzo in pantaloncini e t-shirt che da «prostituto d’altro bordo, tossicodipendente, spacciatore diventa il serial killer più ricercato dell’Fbi» [1]. E questo lo spazio che al Gianni Versace uomo, genio e artista viene dedicato all’interno dell’opera. Lui è la vittima al pari di Nicole Brown e Ron Goldman, anche se in vita non fu una modella semi-sconosciuta né un povero cameriere di sala. La sua assenza fa più rumore perché maggiore era la sua fama, ma a sorreggere l’impianto, come è giusto che sia, sono le indagini, il sottobosco di ipocrisie e diffidenze e l’immenso enigma umano chiamato Andrew P. Cunanan.
Ad interpretarlo Murphy ha chiamato la star di Glee Darren Criss, incredibilmente calato nel ruolo a partire dalla somiglianza spaventosa che mette in ombra quella – altrettanto notevole – tra Versace ed Édgar Ramírez. Con raffinata scioltezza questi mette in scena l’insopportabile spocchia che caratterizzava Cunanan, dal modo di muovere le mani financo a quello di sorridere in maniera inquietantemente enigmatica. Di questo brillante studente con l’ambizione di puntare in alto, la serie scandaglia gli anfratti del suo passato, con scene in analessi che mostrano il suo bisogno di costruirsi una fama a parole, la sua profonda invidia sociale e l’omosessualità esibita o celata come fosse un accessorio di cui servirsi all’occorrenza. Ed è vero forse, come dichiarò immediatamente la famiglia nel 1997, che Versace e Cunanan non avevano mai avuto alcun tipo di incontro; ma le scene del confronto in discoteca e dell’appuntamento successivo servono a mettere in luce quell’assurda ossessione che il serial killer dall’indubbia bellezza nutriva per gli uomini di potere e per Gianni Versace in particolare. Lui era l’icona del successo cui Cunanan aspirava e, poiché non poteva averlo, altro non restava che riuscire ad abbatterlo.

Darren Criss as Andrew Cunanan
La sua parabola è quella di un uomo senza qualità di cui la serie segue, in un crescendo da melodramma, la pietosa discesa agli inferi. Gli interni intarsiati di Villa Versace, gli abiti che la costumista Lou Eyrich ha ricreato ispirandosi alla maison senza poter eccedere e le vicende da the show must go on di Donatella (Penelope Cruz), Santo (Giovanni Cirfiera) e del compagno dello stilista Antonio D’Amico (un poco convincente Ricky Martin) sottolineano, ancora di più, l’abisso intercorrente tra il mondo sognato da Cunanan e quello squallido in cui egli viveva, soprattutto nella sua mente. E se l’impossibilità di penetrare appieno la mente psicologicamente distrutta di un ventottenne ritrovatosi pluriomicida comporta, in diversi passaggi, un traballio dell’impianto generale, c’è da dire che Criss riesce a sostenere con maestria persino il peso del vuoto e degli interrogativi. A completare il resto, quasi una sorta di cornice di contorno, sta tutta un’atmosfera di omertà e voyeurismo, ipocrisia e omofobia serpeggiante. L’America di ieri che si scandalizza del diverso, chiude gli occhi finché le è comodo e poi mangia con rapace morbosità tutto ciò che prima idolatrava.
È per questa serie di elementi che The Assassination of Gianni Versace è una serie scandalosa e perturbante; lo spettatore viene messo dinnanzi allo scarto dalla sua comoda norma ed è addirittura disagiato dalla vicenda di un uomo che impazzisce portandosi nella tomba (Cunanan morirà otto giorni dopo l’omicidio Versace) una spirale di misteri ed inquietudine. Quel che resta è un profondo shock al di qua e al di là dell’Oceano; il mondo della moda è sconvolto, le top model piangono, le principesse si disperano. È sconvolta l’opinione pubblica, è sconvolta la politica, è sconvolto lo spettatore che più di vent’anni dopo vede del sangue finto grondare dalle scale e realizza che in fondo, dietro a un crimine, c’è sempre una duplice storia. E raccontarla in una sola direzione, molto spesso, non aiuta mai.
[1] Così scrive Tony di Corcia in Gianni Versace: la biografia testo impreziosito, tra l’altro, dalla prefazione dell”eterno rivale dello stilista calabrese, Giorgio Armani.