Suburbicon, i mostri della porta accanto nel capolavoro zoppo di George Clooney • Terzo Binario News

Suburbicon, i mostri della porta accanto nel capolavoro zoppo di George Clooney

Dic 27, 2017 | Cinema e libri, Cultura, Dal Web

di Ginevra Amadio

Prendete una sceneggiatura dei fratelli Coen, zeppa di situazioni da fratelli Coen, con ironia e personaggi da fratelli Coen impersonati da alcuni tra gli attori più valenti e personalmente amati da Joel e Ethan Coen. Mixate il tutto con colori pastello e abiti in stile Donna Reed, questioni razziali che strizzano l’occhio alle politiche trumpiane e otterrete il carattere peculiare di Suburbicon, un film che ha un solo, grande difetto: quello di esser stato diretto da George Clooney.

Sia chiaro, l’attore-regista giunto al suo sesto lungometraggio ha già ampiamente dimostrato di possedere le giuste doti da autore cinematografico, in grado di riplasmare soggetti e aspetti destreggiandosi non solo dietro la macchina da presa ma financo dinnanzi all’intero impianto costruttivo del film. Lo fa egregiamente, e qui decisamente meglio di quel Monuments Men che aveva scatenato un’incredibile nostalgia per la perfezione di Good Night, and Good Luck.

Tuttavia, manca qualcosa. Non l’estro creativo, tanto più valido quando si sposa – in un artista come Clooney – con motivazioni ideologico-politiche che permettono di lanciare un segnale forte in un momento in cui di rigurgiti nazi-xenofobi son piene le cronache. Quanto l’incapacità di tenere insieme due anime, due fili d’Arianna che invece che congiungersi finiscono per restare aleatoriamente paralleli e in alcuni tratti forzatamente sovrapposti.

La sceneggiatura dei Coen, infatti, è una di quelle buttate giù in un tempo “inadatto” e poi lasciate decantare in un cantuccio in attesa del proprio, benjaminiano, momento di conoscibilità. Risaliva agli anni Ottanta, entro i quali andava a collocare un irriverente thriller comico poi accantonato per essere ripreso successivamente in mano da un Clooney alla ricerca del copione perfetto. E il congegno ad orologeria dello script era caricato apposta per esplodere nel 2017 della presidenza Trump e degli eventi di Charlottesville. 

Così il regista ha spostato l’ambientazione dall’ ’87 al ’57, ed è strano che nessuno abbia finora notato come l’insistenza del numero 7, nella tragicità di tali accadimenti, rimandi al simbolo apocalittico per eccellenza a cominciare dai sigilli della Rivelazione sino ad arrivare all’opera intera di Dino Buzzati. Modello apocalittico che è modello di ansietà, capace di affondare le radici nell’assurdo contemporaneo e testimoniare le nostre paure, i nostri interrogativi sulla vita sradicata da certezze e punti fermi. Come accade oggi, come accadeva negli anni ’50 del quartiere lower-middle class di Levittown, rifugio di razza caucasica sconvolto dall’arrivo dei negri Myers rei di insozzare la «città meravigliosa ed entusiasmante costruita con la promessa di prosperità per tutti». La città che nel film di Clooney diventa Suburbicon, con l’aggiunta del tema razziale estraneo ai Coen e tremendamente efficace in un’epoca mai conclusa di muri e minoranze.

suburbicon

Eppure è qui che sta l’origine della difformità. Il progetto di Clooney è nobile, perfettamente in grado di far correre brividi lungo la schiena richiamando fantasmi del passato ma non riesce, alla fine dei conti, a presentarsi come un amalgama riuscito. Il piano della storia che maggiormente funziona è quello che poi occupa lo spazio maggiore, relegando il tema della (non) integrazione a cornice quasi unicamente funzionale alla messa in scena della disfunzionalità di una famiglia bianca cui tutti guardano come al modello dell’American way of life.

Perché i Gardner, infatti, sono l’equivalente del Mulino Bianco made in USA, composti così come sono da figlioletto dolce e papà premuroso, mamma invalida ma teneramente dedita alla casa e cognata tuttofare che non manca di assistere amorevolmente la sorella vittima di incidente nelle faccende domestiche e familiari. Sono il fiore all’occhiello dell’esclusivo paradiso di Suburbicon, perfettamente imbellettati nelle loro giacche linde e gonne a ruota, cravatte inamidate e rossetti rosso-arancio. Fino a che una notte due balordi irrompono nella casa dalle tende a fiori e stordiscono tutti con il cloroformio uccidendo la mamma invalida. Un evento sconvolgente compiuto a due passi dalla villetta dei Meyers, untori di tragedie chiamati da chissà quale entità a disturbare la rispettabile quiete del quartiere di provincia.

La faccenda però è più ordinariamente folle di quel che si pensi, e risponde a quella banalità del male che alberga dietro le apparenze pastello e gli steccati divisori erti per difendersi dal “diverso”. Puzza di bruciato in maniera clamorosa e maldestra, come dice a un certo punto l’investigatore assicurativo magistralmente interpretato da un disincantato e cinico Oscar Isaac. Solo che per la borghesia benpensante è più semplice incendiare le macchine dei neri che credere che dietro i muri di una villetta bianca si stia avvelenando qualcuno con la soda caustica. Tale ottusa cecità è resa in maniera incredibilmente realistica nella pellicola di Clooney, che però si ferma sempre un passo prima, non portando mai a compimento l’incastro completo tra il subplot dei Meyers e la trama dei Gardner.

Ma tanto aggiungono gli attori protagonisti, menti criminali attive o plagiabili cui prestano il volto un appesantitissimo Matt Damon e una bionda Julianne Moore nel duplice ruolo di moglie e cognata. È sul loro talento unito alla capacità di sapersi cucire addosso ogni ruolo che poggia gran parte della qualità del film, in cui ad ogni morto si ride in maniera isterico grottesca come solo i Coen sanno suggerire. E lo sguardo del bambino, Nicky (Noah Jupe), aggiunge quel qualcosa che solo nella letteratura avevamo visto, quando i bambini – coinvolti in storie più grandi di loro – restituiscono l’innocenza dell’età anche quando questa è macchiata per sempre dalla vista dell’orrore e dell’indifferenza.

Il thriller comico dei fratelli più famosi del cinema diventa così nelle mani di Clooney – ancora una volta – un efficace moral play. Che può fregiarsi di tutti i pregi tranne quello, fondamentale, di trasformare le suggestioni ricercate in metafora. Peccato, forse Joel ed Ethan ci sarebbero riusciti.

 

Fonti:

Agostinelli A., Un mondo perfetto. Gli otto comandamenti dei fratelli Coen, Controluce (Nardò), 2010
Brizio S., “Suburbicon”, Clooney e il razzismo in America: “Contro i muri di Trump”, in La Repubblica, 5 dicembre 2017
Rossi L., Suburbicon, in Cineforum, 5 dicembre 2017