Questa mattina mi sono imbattuta nella poesia “La Madre “ di Giuseppe Ungaretti. Bellissima lirica composta per la morte della madre del poeta nel 1930. L’ho letta sorseggiando il caffè, come sono solita fare. Una poesia serve ad aprire il giorno e mi sto deliziando dalla primavera scorsa con la lettura e lo studio di poeti italiani del primo Novecento. Questo riandare dentro il tortuoso percorso della poesia italiana, mi stimola ad un’analisi di quel che è sempre stata la mia idea riguardo alla poesia italiana.
Non mi piaceva la lirica italiana, la trovavo pesante, triste. In questi tempi ho capito il motivo, ho capito perché da giovane ho tenuto così a distanza i nostri poeti. La complessità delle tematiche trattate, il tono grave e la lacrima in tasca poco si confacevano con il mio temperamento ribelle.
Poi la vita, come dice Gozzano nella lirica Totò Merumeni – si ritolse tutte le sue promesse – ( quanto ho pianto davanti a questi versi…). Oggi, che gli anni e gli eventi di cui siamo stati spettatori e protagonisti, ci hanno insegnato quanto poco possiamo incidere sugli eventi della vita, questi versi bucano il mio cuore, si fanno miei fratelli e compagni.
Quel sapersi preceduti nel regno dell’oltretomba, da quel bene immenso ed inesprimibile, qual’è l’affetto genitoriale, è stata una sensazione che ricordo ho provato anch’io alla morte di mio padre.
Per questo motivo i versi di Ungaretti:
“… Per condurmi Madre, sino al Signore,
come una volta mi darai la mano “
letti in questo mattina di festa, che tanto svela la nostra cruda solitudine di adulti, mi sono stati compagni di lacrime meste, lacrime di vecchi e non più prorompente valanga di acqua di giovane cuore, pieno d’amore non corrisposto.
Qui la Madre, nella sublimazione della morte, si fa divinità, si trasforma in quel che Virgilio fu per Dante, guida e conforto e la Morte perde il suo mantello di paura, nel quale è avvolta.
Il poeta ormai non teme più di morire, perché è consapevole di avere nel mondo delle ombre, quella mano calda e confortante della mamma,che le si farà incontro salvandolo da ogni insidia.
Ho provato questa sensazione forte, di un inaspettato conforto alla morte di mio padre, perché lui è stato il mio genitore quasi unico.
Il giorno in cui è morto, una morte annunciata da una malattia inesorabile, il cielo era azzurro, un vento di tramontana aveva spazzato ogni residuo di nuvole, il sole, pur nel suo gelo d’inverno, era splendente. Sembrava, a guardar con gli occhi all’insù, che qualcuno avesse deterso il cielo per renderlo più brillante. E proprio inebriandomi a tanta intensità di colore che, sentito il calore di quella mano invisibile, come d’incanto è svanito il mio terrore per la morte.
Un terrore per una condizione di non esistenza, che mi schiacciava e nello contempo mi aveva indotto per molti anni ad inseguirla in un processo autodistruttivo inconcludente, sempre legata a delle vanità superficiali.
Insieme con Giuseppe ci siamo scoperti dannati, per la fine di quell’estatica era di spensierato abbandono; dannati dal ricordo di quell’età peritura, quale è l’infanzia e dannati infine, compagni di fossa, in questa vita difficile, soverchiata dalla viltà e dall’ignoranza morale e umana ma pur sempre da vivere e da succhiare avidamente.
Nell’ottica di quel che si propone questo blog, porto alla vostra attenzione come una poesia può, dal suo particolare, entrare nel nostro quotidiano. Vedete, quindi, che la poesia ci appartiene più di quanto non pensiamo.