di Ginevra Amadio
Non si ricorda Herta Müller, nemmeno nei cenacoli intellettuali che nel 2009 se ne appropriavano. Non si ricorda il 17 agosto, giorno della sua nascita, né ogni anno in occasione del Nobel, troppo presi da Bob Dylan o Svetlana Aleksievič indebiti invasori di un campo in verità elastico come quello della letteratura.
Non se ne parla perché di nicchia, o troppo piccola per finire tra i grandi, come se poi il giudizio di valore fosse davvero un criterio valido per delimitare il sistema letterario perennemente in movimento. Il pantheon moderno è quello degli uomini da ammirare, imbalsamati dietro una teca da spolverare nelle occasioni importanti. Allo scoccare dell’ennesimo anniversario li si cita come imprescindibili fonti, per riporli di nuovo nel cassetto dei cimeli importanti, quelli che da anni si tramandano come tali senza saperne poi realmente il perché.
I confini del canone, del resto, si sono mostrati assai poco elastici dinnanzi alla possibilità di accogliere in questo spazio “sacro” autori diversi come Herta Müller. Harold Bloom, mente provocatoria della “lista” dei maestri dell’Occidente – il Canone Occidentale, appunto – interrogato sulle scelte dell’Accademia di Svezia mostrava un misto di sgomento e repulsione nel constatare il preoccupante – a suo dire – percorso imboccato dall’istituzione: «Penso a Herta Müller, che ho voluto leggere e mi sembra a dir poco minore. O l’ anno precedente, Le Clézio… insomma mala tempora currunt».
Eppure la Müller, mente brillante del nostro tempo, è stata forse una delle ultime penne a vincere il Nobel per meriti effettivi. Nessuna operazione di svecchiamento, nessun risarcimento tardivo o provocatoria scelta di stupire. Solo lo sbocco naturale di un doloroso percorso controcorrente, in cui la «la concentrazione della poesia e l’oggettività della prosa ha[nno] rappresentato i paesaggi di chi non ha patria».
Perché la scrittura di Herta Müller è la trasposizione su carta di quello che Antonella Gargano ha definito sguardo dal margine [1]: un margine geografico-spaziale, come quello della enclave di lingua tedesca della provincia del
Banato dove la scrittrice tedesco-rumena è nata nel 1953, ma anche un margine esistenziale, periferico, proprio di chi si sente straniero ovunque, e da sempre.
Come lei, che nell’87 faceva richiesta di espatrio nella Germania occidentale dopo essersi rifiutata di collaborare con la “Securitate”. Lei che affermava: «[…] dove ci sono due persone, uno dei due è una minoranza. Dove c’è una persona, questa è una minoranza di fronte alla sua vita e, dal momento che è solo, non riesce a resistere».
Un confine che è percezione della realtà dunque, uno sguardo che si traduce in un’ottica fuori centro, tale da farle dire: «Cerco sempre di immaginarmi ai margini dell’avvenimento che sto osservando». È da qui, allora, che discende la maniacale attenzione per i dettagli che si riscontra in tutti i suoi testi, quasi un motivo ossessivo che, seguendo una concezione nota da Baudelaire in poi, permette di penetrare nel vissuto dell’autrice e nelle pieghe della sua scrittura.
Attraverso uno sguardo straniante, che richiama alla mente il microscopio e il telescopio di Alberto Savinio, Herta Müller avvicina o ingrandisce particolari di singole immagini, che vengono restituite all’insieme solo dopo una frammentazione quasi infantile, una sorta di amputazione del corpo che sarebbe tanto piaciuta a Freud quanto ai surrealisti francesi d’area pittorica o letteraria. E così una cicatrice dietro l’orecchio o un gomito si prendono la scena in una prosa di Febbraio a piedi, vera e propria resa dei conti con la Romania per la scrittrice. O ancora una treccia sulla nuca e i dettagli di bizzarre figure dialogano con i testi poetici a mo’ di papier collé in Lo sguardo estraneo.
Una tale osservazione di sé e dei frammenti del proprio mondo è un lavoro reso indispensabile da un’esistenza esposta a una minaccia costante, da una vita sotto la dittatura in cui «chi subisce la minaccia sta ad osservare il
persecutore per proteggersi da lui. Il persecutore manovra d’attacco, il perseguitato in difesa».
La testimonianza di un’esistenza sotto il terrore, affidata dalla Müller alla scrittura autobiografica in Der fremde Blick, ritorna sotto forma di racconti strazianti ne Il paese delle prugne verdi; pedinamenti, licenziamenti, interrogatori e misteriosi suicidi per raccontare con estrema lucidità il clima di paura e orrore di un paese allo sbando che rappresenta per l’autrice, in fondo, un’ossessione eternamente ritornante. È la Romania dell’oppressione di Ceauşescu, in cui «non ci possono essere città, perché tutto rimane piccolo, quando viene sorvegliato».
Ma nelle opere realmente capaci di essere inesauribili ogni cosa è multipla e nasconde più facce di quelle che mostra. Ecco allora che la soffocante sopraffazione è la stessa che viene dall’interno della minoranza tedesca, fatta di grettezze e assurdo orgoglio della comunità.
Non c’è luogo che possa restituire vergine la libertà lesa dell’essere umano. Herta Müller non trova approdo, e continua a vivere in un senso perenne di assoluta provvisorietà. «Chi si mette in viaggio arriva troppo tardi» afferma la protagonista di In viaggio su una gamba sola e la Müller stessa, senza bisogno di tante parole, dichiarava con candore la sua ineluttabile estraneità: «Ho capito che ero straniera in una terra straniera, anche se parlavo la stessa lingua».
«Il Nobel – ha detto Adriano Sofri – ha premiato chi passa le linee, chi viene dalle marche di confine e non si trapianta più del tutto». È per questo che il riconoscimento alla prosa di Herta Müller resta uno degli ultimi atti – in tale campo – pienamente significativi. Ed è per questo che andrebbe ricordata al di là del 17 agosto e all’infuori di posticce e artificiose cronistorie da premi annuali buone per riempire qualche pagina di giornale.
[1] Gargano A., Herta Müller o lo sguardo dal margine, in www.retididedalus.it, febbraio 2010
