Se dovessimo attenerci al messaggio che ci trasmette quella grave pagina della storia italiana, dovremmo ricordare il tentativo di persone indifese e deboli, perché senza lavoro e “proletarie”, perché avevano nei figli l’unica “ricchezza”(avuti con il coraggio della speranza e senza la pretesa di metterli al mondo solo a seguito di un calcolo economico) contrapposte a un potere forte e violento che, nella circostanza, era rappresentato dai latifondisti, spalleggiati dal braccio armato della “mafia”.
La circostanza della strage, è bene ricordarlo, era una manifestazione del partito comunista che (mi si consenta), in quell’occasione si trovava dalla parte dei lavoratori e contro il sistema mafioso..
Facciamo bene a evocare quella pagina, ma facciamo un torto alla storia e ai protagonisti se lo facciamo con spirito salottiero, intellettuale o persino di posizione, senza andare nel profondo dei valori che erano in ballo, allora come adesso.
il primo maggio, infatti, non è la festa dei lavoratori comunisti contro quelli che non lo sono. E’ molto probabile che tra le persone colpite dalle raffiche delle armi o delle ritorsioni, non vi siano soltanto aderenti al partito comunista. Ma è anche probabile che tutti i lavoratori di quel tempo fossero vicini a quel partito, proprio perché vi trovavano protezione e soprattutto la necessaria “distanza” dalla prevaricazione degli affari a tutti costi, dal disprezzo della legge e della dignità dei lavoratori, dalla sottomissione di chi si trova in condizioni di debolezza perché ha bisogno di lavorare.
E’ proprio questa la festa del 1° maggio: è la giornata in cui si afferma il principio costituzionale del “primato” del lavoro su quello degli “affari” o del “profitto a ogni costo”; dell’attenzione verso chi è costretto a cercare un lavoro senza alcuna speranza di trovarlo; della sicurezza di chi un lavoro ce l’ha, ma rischia di perderlo per ragioni di “politica finanziaria” o “delocalizzazione”; della tutela dei deboli e delle donne (anche quelle in maternità e dei loro figli minori) affinché non vedano compressa, ingiustamente, la propria capacità lavorativa.
Ma soprattutto, il 1° maggio, deve essere la festa in cui si afferma, in modo forte, la distanza rispetto alle logiche della speculazione che portano le aziende al fallimento, ai danni dei lavoratori, ma con liquidazioni milionarie per i manager. Così come nei confronti dell’imposizione di costi e vincoli sulle assunzioni che impediscono ogni forma di occupazione, per garantire il sostegno di un sistema che si autoalimenta ai danni di tutti i lavoratori.
Se fossero davvero coerenti, oggi, in piazza, non dovrebbero sfilare quelli che si dichiarano “rappresentanti dei lavoratori”, ma utilizzano le quote e i contributi sindacali per finanziare le proprie crociere e mantengono in vita una legge di qualche anno fa che consente loro di andare “a riposo” con pensioni da favola, la cui mensilità non viene raggiunta in un anno da un operaio.
Non dovrebbero sfilare in piazza nemmeno quelli che, piuttosto che lavorare, vivono dei proventi della “borsa” (tecnicamente, infatti, si dice “giocare” in borsa, non a caso) comprano azioni e vendono, speculando sulle sorti positive o negative delle imprese, determinandone il successo o il fallimento con semplici algoritmi che mandano sul lastrico i lavoratori, gli stessi che si troverebbero a fianco.
Non dovrebbero manifestare nemmeno quelli che praticano politiche fiscali aggressive, accanendosi su privati e imprese, nella forma di tasse e imposte, nazionali e locali, affinando gli strumenti di riscossione coattiva e causando la vendita all’asta delle prime case (comprate dalle stesse banche) e con i soldi così raccolti, finanziano i fallimenti bancari o la sopravvivenza di enti inutili o di imprese, fino al prossimo fallimento.
Non dovrebbero presentarsi nemmeno quelli che hanno permesso che, dopo decine di anni di lavoro, per ragioni di politica “finanziaria”, qualcuno si trovi definito “esodato”, senza il diritto al lavoro, né alla pensione.
Non dovrebbero scendere i piazza quelli che, in nome della globalizzazione e del motto “ce lo chiede l’Europa” (che usiamo soltanto in Italia) promuovono la proliferazione di multinazionali, dai capitali di dubbia provenienza, mortificando e rendendo impossibile la sopravvivenza delle imprese locali.
L’elenco potrebbe continuare e si correrebbe il rischio di avere le piazze vuote. E magari, per evitare ciò possiamo chiamare tutti ad ascoltare musica ad alto volume, accompagnata da fiumi di birra e qualcosa da fumare, mentre nel palco qualcuno ci ricorda “la lotta alla mafia”, “la difesa dell’occupazione”, “la tutela delle lavoratrici e dei lavoratori”, “la difesa del posto di lavoro”, come quando si recita un rosario distrattamente, aspettando di raggiungere l’ultimo grano della corona per andare via, con la coscienza in ordine.