"Quattro notti di uno straniero", ovvero la notte del cinema sperimentale • Terzo Binario News

“Quattro notti di uno straniero”, ovvero la notte del cinema sperimentale

Feb 14, 2013 | Alessio Cappuccio, Blog

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Una scena del film

Nella settimana che va dal 14 al 20 febbraio, il Nuovo Cinema Aquila proietta il film Quattro notti di uno straniero (titolo originale: Quatre nuits d’un étranger), seconda opera di finzione del regista Fabrizio Ferraro e successore spirituale del precedente Penultimo paesaggio.

Si tratta – e per una volta questo genere di distinzioni terminologiche non è del tutto ozioso – di quello che viene chiamato un film sperimentale, o film di ricerca, ancora o film d’arte. Riprendendo il canovaccio de Le notti bianche di Dostoevskij Ferraro racconta la “storia” di due sconosciuti che si incontrano casualmente a Parigi, si frequentano per una manciate di ore notturne e poi si separano. Una vicenda minimale, quasi del tutto priva di dialoghi e battute, con uno sviluppo narrativo ridotto all’osso e forse più, dato che le ellissi sono massicce e lasciano spazio quasi unicamente alla ripetizione di alcuni micro-eventi.

In fondo quella che si vede in Quattro notti di uno straniero (al di là di alcuni temi come l’incomunicabilità e l’impossibilità dell’incontro tra due individui che non sia puramente fisico, questione di prossemica) è prima la cronaca di un’attesa e dopo un paziente pedinamento-ascolto di tutto ciò che intercorre tra i personaggi che sia non-detto e non-fatto. Il punto è proprio questo: il film non ha interesse a raccontare una storia già letta/vista/ascoltata più e più volte, ma si concentra e punta l’occhio su tutto quello che, all’interno di una pellicola tradizionale, chiameremmo lo sfondo.

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Un fotogramma del film

È allora la ricercata fotografia in bianco e nero a condurre lo spettatore in un viaggio attraverso una città che osserva i movimenti dei due corpi attoriali, che sembra respingerli, minacciarli, proteggerli e cullarli allo stesso tempo. La pupilla viene trafitta da bagni di luce bianca e chiaroscuri marcati, mentre ciò che rimane della visione viene convogliata verso punti di fuga e prospettive geometricamente orchestrate. È l’inquadratura in sé, più che il suo contenuto, a stimolare la curiosità di Ferraro, il quale affida alla città il compito di dettare i tempi di un’azione essenzialmente statica, contemplativa.

La macchina da presa infatti segue due impostazioni: fissa, puntata su ciò che gli stessi personaggi osservano, oppure avvolgente e assecondate i loro movimenti attraverso il ventro molle e placido di Parigi. In ambedue i casi si ha la sensazione che a pulsare, a sfrecciare, a tagliare lentamente il quadro siano i molteplici elementi “secondari”: i traghetti che solcano la Senna, le macchine che sfrecciano per le strade, i passanti che deambulano per le vie, le linee dei muretti del lungosenna e tutto ciò che costituisce l’inorganica vita della città. Doppio è anche il risultato ottenuto: da una parte la forte suggestione di essere inclusi, assorbiti, inglobati dai movimenti sensuali del dispositivo di registrazione video, con un effetto potente di oblio di se stessi; dall’altra un sensazione di gelo, prodotta dalla ieraticità e dal rigore assoluto con il quale viene respinto qualsiasi tentativo di adesione emotiva, relegando il pubblico a mero osservatore, girovago, flâneur privo di effettive capacità decisionali.

Quattro notti di uno straniero, infatti, invoca vivacemente l’attenzione e la partecipazione attiva di chi guarda il film, chiedendogli di dimenticare il suo tipico atteggiamento passivo per riempire consapevolmente quei vuoti, quegli abissi, quelle profondità superficiali che il regista ha disposto per la lunghezza della pellicola. Il rischio però è che non vi sia alcun approdo finale, nessun traguardo, non una meta da raggiungere.

Ed è il rischio che da sempre costeggia la vicenda del cinema sperimentale. Bisogna pensare all’origine di questo questo termine per coglierne appieno il significato: così come in ambito scientifico un esperimento serve a raccogliere dei dati allo scopo di saggiare delle ipotesi, in genere grazie all’ausilio di nuove tecnologie e nuovi approcci, allo stesso modo il cinema di ricerca è tale perché al centro delle opere vi è una tensione verso il nuovo, l’inesplorato, il non-ancora-visto. Il processo trionfa sul risultato: usando un’immagine piuttosto vieta, è il viaggio a essere importante, non la destinazione finale. E del viaggio vengono privilegiati il più delle volte aspetti che potremmo definire “tecnici”. La conoscenza acquisita, se esiste, non riguarda tanto i viaggiatori quanto piuttosto i meccanismi che regolano il funzionamento della vettura-macchina. La sperimentazione cinematografica, probabilmente, è adatta più agli addetti ai lavori (i meccanici, gli ingegneri, i piloti del cinema) che all’usuale congresso degli spettatori (i viaggiatori).

Tuttavia, non bisogna dimenticarlo, i dati raccolti e poi analizzati serviranno per la costruzione di teorie scientifiche funzionanti che sfoceranno in seguito in applicazioni pratiche. Il linguaggio elaborato dal cinema sperimentale, in soldoni, viene assorbito, normalizzato e riutilizzato nel cinema di consumo con notevole costanza (così come avviene anche in musica e nell’arte in generale). Soluzioni che sembravano ardite e astruse divengono la norma, e chiunque ha avuto modo di stupirsi del montaggio anti-classico di Fino all’ultimo respiro di Godard avrà poi notato come questo sia divenuto la norma nel cinema moderno. Per quanto ostico, insomma, il cinema di ricerca trova la propria ragion d’essere, a posteriori e non di propria volontà, nell’identificazione coatta in una sorta di serbatoio di idee da cui le tecniche di narrazione più addomesticate pescano per rinnovarsi in continuazione.

La sfida più ardua è infine posta al pubblico: avrà questi il coraggio, la pazienza e l’intelligenza di volersi confrontare con la materia grezza, più autentica perché ancora non raffinata, grazie alla quale vengono costruiti i film di cui è solito pascersi?