<<25 anni fa, quando uccisero mio fratello, mia madre ci chiamò e ci chiese di andare in ogni dove per parlare di Paolo. “Finché qualcuno parlerà di lui, Paolo non sarà morto”. Io ho tenuto fede a quella promessa, per questo sono qui con voi stamattina>>.
Con un velo di emozione così ha cominciato a parlare ai ragazzi Salvatore Borsellino alzando con una mano un libro dalla copertina rossa che ricorda e parla della famosa agenda rossa, fatta sparire il giorno dell’attentato, del magistrato Paolo Borsellino che conteneva la sua condanna a morte: i progressi delle sue indagini sulla trattativa fra Stato e mafia.
Grazie al supporto di Francesca Toto ed alla associazione “Agende rosse”, i ragazzi della “Melone” hanno potuto conoscere ed ascoltare la voce del fratello di Paolo, magistrato martire della lotta alle ingiustizie, Salvatore Borsellino, sceso a Fiumicino per dirigersi direttamente alla nostra Scuola.
Prima di entrare nel vivo del suo discorso, ha voluto ricordare una giovane studentessa universitaria, impegnata sul campo nella lotta alla mafia, cui una malattia ha impedito di continuare a vivere e a lottare in nome della legalità e della giustizia. Ma la tristezza malcelata, per questa prematura scomparsa, ha subito ceduto il posto alla speranza che l’opera ed il sogno di Paolo non svaniscano, che ci sia sempre qualcuno che con coraggio e forza combatta in nome della legalità.
Salvatore Borsellino ha raccontato che Paolo sosteneva che la lotta alla mafia non è quella che stava conducendo lui, con il pool, insieme alle Forze dell’ordine. Quella è solo repressione: la cattura e la condanna di colpevoli di reati gravissimi. La vera lotta alla mafia si conduce altrove rispetto alle aule di tribunale: si svolge nelle aule scolastiche dove si diffonde la cultura e l’istruzione, per consentire ai ragazzi di usare la propria testa e far comprendere loro che lo Stato è sacro: lo Stato sono i cittadini, lo Stato siamo noi e solo il popolo deve avere il potere di decidere quali regole adottare per vivere insieme, senza essere sottomessi a persone non elette da alcuno, senza uccidere o essere uccisi per chi non rappresenta che i propri interessi. Per quella promessa fatta alla madre e per questo motivo, Salvatore ha cominciato a togliere tempo alla sua famiglia per andare nelle Scuole a parlare a tutti i ragazzi, perché la mafia vince lì dove vive l’ignoranza e, come ha scritto lo scrittore e poeta Gesualdo Bufalino: “La mafia sarà vinta da un esercito di maestre elementari”. <
Salvatore Borsellino ha spiegato che Paolo faceva tutto di fretta perché sapeva benissimo che gli rimaneva poco tempo. Il termine corretto è proprio “sapeva” e non “sentiva”. Infatti, gli era arrivata notizia che a Palermo la mafia aveva fatto arrivare un carico di esplosivo e che dopo la morte di suo fratello Giovanni, sarebbe toccato a lui. Anche in questo caso il termine giusto è proprio “fratello” e non “amico” o “collega”. Infatti, se si è figli di una stessa madre o di uno stesso padre o entrambe le cose si è certamente “fratelli”, ma solo anagraficamente. Tuttavia i veri fratelli condividono qualcosa di più forte: gli ideali, i sogni, il pensiero… o la morte. Paolo fu dilaniato dall’esplosione, come lo furono gli uomini e la donna della sua scorta, ma i “pezzi” di Paolo ora vivono nei cuori di tutti coloro i quali riescono a comprenderlo e ne ricordano l’azione.
Sono passati 25 anni dalla sua morte, le indagini sono state deviate e depistate ed i veri mandanti ancora non sono stati giudicati. Ci sono stati ben 4 processi che hanno fatto luce sulla mano omicida della mafia, ma non su chi ha voluto fermare l’azione di Paolo, e ciò che è accaduto dopo la strage fa chiaramente pensare che ci sia stata anche la mano di parti deviate dello Stato. Ad esempio la testimonianza fasulla di Vincenzo Scarantino, un falso pentito che si autoaccusò della strage, che fece deviare le indagini e i sospetti dai veri responsabili e solo in seguito confessò di essere stato costretto alle false dichiarazioni da Arnaldo La Barbera, capo della Squadra Mobile di Palermo, confessione confermata successivamente da Gaspare Spatuzza (il killer di Don Puglisi). Le modalità piuttosto “strane” con cui furono svolti gli interrogatori di Scarantino avevano fatto dubitare della verità fin da subito delle sue affermazioni alcuni magistrati, ma intanto il tempo trascorreva e le indagini non proseguivano sulla giusta pista.
Che Paolo dovesse morire a 52 anni era quasi una premonizione. Sia il padre che lo zio erano morti, di morte naturale a quella età e Paolo, scherzando, diceva che a 52 anni sarebbe morto anche lui. In effetti, non fu una malattia, ma un’auto imbottita di esplosivo a portarlo via, a meno che l’amore non sia una malattia. Infatti, Paolo una volta confessò che “Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare”. L’amore è ciò che ha mosso la vita di Paolo, che avrebbe potuto fare carriera altrove, e la città che lui amava lo ha ucciso.
Come ha raggiunto tale forza la mafia? Certamente un motivo storico è stato l’abbandono del sud da parte del Regno di Italia che inizialmente non era “Italia”, ma “Savoia”, cioè Piemonte, infatti, non si ha notizia di esistenza di fenomeni mafiosi antecedenti all’unità d’Italia. La mafia si rafforza con l’emigrazione e si ramifica all’estero, ma diventa potentissima alla fine della seconda guerra mondiale, quando gli americani, per avere il controllo del territorio e garantire il successo dello sbarco, presero contatti con esponenti della mafia collegati ai mafiosi americani. Una volta vinta la guerra, prima gli alleati e poi il governo statale lasciarono alla mafia il controllo. Gravissimo è stato proprio il mancato controllo del territorio da parte della Repubblica, cioè le mancate risposte dello Stato alle esigenze dei cittadini, risposte negate dai Savoia prima e dallo Stato poi, ma offerte a caro prezzo (prezzo di vite umane) dalla mafia.
Non si tratta di illazioni, ma di sentenze passate in giudicato. Un esempio può essere il caso di uno degli uomini più potenti della prima Repubblica, Giulio Andreotti (il più votato in tutte le elezioni, eccetto che in due casi, sempre presente nel parlamento italiano dal 1948 all’anno della sua morte nel 2013, molte volte ministro e primo ministro, e che per poco non fu eletto presidente della Repubblica), è stato giudicato avere commesso il reato di concorso esterno in associazione per delinquere di stampo mafioso; non è andato in carcere solo per prescrizione del reato commesso.
Ma ancora non è stata detta la parola “fine”, perché attualmente è in corso un processo relativo alla trattativa tra Stato e mafia di cui nessuno ne parla. Il fatto è incredibile, in televisione e sui giornali si parla di tante cose, spesso inutili o, peggio, morbose, tuttavia di cose gravissime, come il fatto che lo Stato si sia piegato a trattare con l’antistato, provocando volontariamente vittime come poliziotti, magistrati e tanti altri, non se ne parla. Nessuno ricorda ad alta voce che lo Stato non può scendere a compromessi con l’antistato. Paolo Borsellino diceva: “Stato e antistato possono solo o combattersi o mettersi d’accordo” e lui fu vittima del compromesso fra Stato e mafia, fu fermato perché non rivelasse questa trattativa richiesta fortemente dalla mafia con gli attentati portati a Roma (a San Giovanni in Laterano, a San Giorgio al Velabro, contro il giornalista Maurizio Costanzo) e Firenze (in via dei Georgofili vicino gli Uffizi) eccetera perché si vedeva minacciata dal lavoro del pool.
Bisogna, però, essere precisi, non è esatto dire “trattativa fra Stato e Mafia” perché, non dimentichiamolo, lo Stato siamo noi e le Istituzioni democratiche devono essere “sacre”. Purtroppo non sempre i cittadini eleggono persone degne di rappresentare l’Italia. Magari vengono elette persone che hanno interessi personali che non collimano con quelli della società civile e quindi le Istituzioni vengono occupate da persone indegne. <
Il motivo per cui il gruppo di magistrati di cui faceva parte Borsellino divenne così pericoloso per la mafia ed i politici collusi, fu anche di tipo tecnico. Inizialmente ogni processo era distinto e le informazioni provenienti dalle varie singole indagini non venivano condivise fra i vari magistrati ed ogni volta occorreva iniziare tutto daccapo, senza contare che i singoli giudici erano vulnerabili, potevano essere intimiditi o uccisi e uccidendo chi indaga da solo, si seppellisce con lui anche il portato delle sue indagini. Fu il procuratore Rocco Chinnici che, dopo l’assassinio del capitano dei Carabinieri, Emanuele Basile, e del suo amico, il procuratore Gaetano Costa, con cui Chinnici aveva condiviso indagini sulla mafia (i cui esiti si scambiavano in tutta riservatezza dentro un ascensore di servizio del palazzo di Giustizia), ebbe l’idea di istituire una struttura collaborativa fra i magistrati: il “pool antimafia”. Rocco Chinnici fu ucciso dai due cugini Nino e Ignazio Salvo, ma il suo posto fu preso da Antonino Caponnetto che chiamò nel pool Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Gioacchino Natoli, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta. La loro attività portò all’arresto e poi alla condanna al carcere duro (il cosiddetto “41 bis”) di più di 400 criminali legati alla mafia nel maxiprocesso di Palermo. Fu durante le indagini per il maxiprocesso che si venne a conoscere il vero nome della associazione mafiosa siciliana: “Cosa nostra”. Grazie alle rivelazioni del pentito Tommaso Buscetta, cui la mafia aveva ucciso ben 11 familiari e che vedeva nelle morti di donne e bambini un tradimento della linea antica di “Cosa nostra”, si venne a conoscere per la prima volta ciò che molti dicevano insistentemente non esistesse affatto: la struttura dell’organizzazione ed i legami esistenti con la politica.
Che una parte dello Stato abbia lavorato per favorire i mafiosi lo si comprende dal fatto che il boss mafioso Salvatore Riina sia riuscito a restare latitante per 40 anni, senza mai allontanarsi da Palermo e senza che sia mai stato individuato ed arrestato, cosa impossibile senza l’aiuto o la copertura delle forze dell’ordine colluse. Da un’intercettazione si era anche evidenziato che Riina tranquillizzava i detenuti dicendo di stare tranquilli “che poi si aggiusta tutto”. In effetti, era diventata prassi normale che i condannati per mafia in primo e in secondo grado, si vedessero poi assolti in terzo grado per motivi formali banalissimi, ad esempio per documenti vidimati con timbri di gomma invece che di ferro. Stranamente la Prima Corte di Cassazione (presieduta dal giudice Carnevale, definito l’ “Ammazzasentenze”) annullava tutti i processi per mafia, costati anche la vita di poliziotti e magistrati, tanto che erano stati cancellate oltre 300 sentenze per vizi di forma. Ovviamente è importante e giustissimo che esista la Corte di Cassazione, la quale ha l’importante compito di garantire il corretto funzionamento dei processi, evitando ingiustizie verso gli imputati, ma era evidente che qualcosa non andava, anche perché era sempre lo stesso giudice che annullava le sentenze dei processi con condanne per mafia. Fu proprio Falcone, quando andò a lavorare a Roma, a far sì che la Cassazione venisse gestita a rotazione e questo permise di salvare le sentenze del maxiprocesso che riuscirono a diventare definitive. Probabilmente da qui nasce tutto perché Riina sente che i politici di riferimento non riescono più a mantenere i patti con la mafia e colpisce quei politici che fino ad allora avevano protetto l’impunità dei mafiosi, o almeno reso inutili le condanne dei tribunali, ed ora non potevano più proteggerli. Viene così ucciso Salvo Lima, importante uomo politico, vicinissimo ad Andreotti, che fu sindaco di Palermo quando vennero accordate un numero enorme di concessioni edilizie a dei prestanome ignari, facendo scomparire la bellissima “Conca d’oro” di Palermo con un danno ambientale assurdo. Lima era esattore delle tasse a Palermo e garantiva i voti alla corrente andreottiana della Democrazia Cristiana. Questo assassinio fu un avvertimento all’allora presidente del consiglio Andreotti, che aveva firmato un decreto-legge che aveva fatto tornare in carcere gli imputati del maxiprocesso, scarcerati per decorrenza dei termini o agli arresti domiciliari. L’eliminazione di questa forza politica in Sicilia, fece poi perdere ad Andreotti la possibilità di essere eletto presidente della Repubblica.
Persa la fiducia nei politici nazionali, il boss mafioso Leoluca Bagarella aveva capito che a “Cosa nostra” serviva un partito che fosse diretta espressione della mafia e quindi diede l’incarico di costituire un nuovo partito, “Sicilia libera”, che nacque con obiettivi separatisti simili a quelli della “Lega nord”, con cui il nuovo partito in effetti ebbe vari contatti, ma successivamente l’altro boss mafioso, Bernardo Provenzano, decise che, invece di andare avanti col progetto del partito regionale “Sicilia Libera”, fosse migliore la soluzione che veda l’appoggio al partito che sta per nascere grazie ad un vecchio amico, Marcello Dell’Utri (condannato per frode fiscale, oggi ancora in carcere per concorso esterno in associazione mafiosa). Quel partito è “Forza Italia” che, ascoltando le parole del suo leader Silvio Berlusconi, non sarebbe mai esistito e cresciuto senza l’aiuto di Dell’Utri.
In quel periodo Paolo stava interrogando un pentito, un killer esponente della vecchia mafia, Gaspare Mutolo, che rivelò gli intrecci fra la mafia e la politica e proprio durante uno degli interrogatori, Borsellino viene chiamato al telefono e convocato dal neo ministro Nicola Mancino. Mutolo racconta che quando rientra per l’interrogatorio, Paolo è nervosissimo, tanto da mettersi in bocca, senza nemmeno accorgersene, due sigarette da fumare. In effetti, era accaduto che al Viminale, in attesa di incontrare il ministro, Paolo Borsellino aveva incontrato l’allora Capo della Polizia Vincenzo Parisi accompagnato da Bruno Contrada (facente parte dei servizi segreti italiani e successivamente condannato per concorso esterno in associazione mafiosa) che, salutandolo velocemente, gli disse: “So che state interrogando Mutolo, tenga presente che siccome io a suo tempo ho fatto indagini su di lui, se posso essere utile…”. Questa cosa lo sorprese molto perché quello era il primo incontro con Mutolo e l’interrogatorio era a livello di massima segretezza. A parere di Salvatore Borsellino, Mancino aveva imposto a Paolo di chiudere l’indagine per far proseguire la trattativa, infatti, quel nervosismo non può essere dovuto solo alla attesa del ministro ed ancora più strano che Mancino abbia poi detto di non avere mai incontrato Paolo, anzi nemmeno di conoscerlo (eppure la sua foto era su tutti i giornali dopo la morte di Falcone, in quanto tutti sapevano che il prossimo omicidio sarebbe stato proprio il suo). Paolo era molto meticoloso ed in una agenda giornaliera, dove riportava con estrema precisione quanto svolto nella giornata, aveva appuntato chiaramente l’incontro con il ministro, mentre nella sua famosa e segreta agenda rossa, da cui non si separava mai, certamente aveva appuntato cosa si erano detti; ecco, quindi, il motivo della sparizione dell’agenda nell’attentato (da una foto si vede la borsa contenente l’agenda rossa nelle mani del capitano dei Carabinieri Giovanni Arcangioli), sparizione certamente voluta non dalla mafia, ma da chi, rappresentante delle Istituzioni, non voleva si sapesse cosa ci fosse scritto: dell’incontro con Mancino e della richiesta di interrompere le indagini.
Salvatore Borsellino non amava Palermo; pensava che, andando via dalla sua città, avesse chiuso, in qualche modo i rapporti con quella realtà. Era andato a lavorare al nord, ma non ha mai dimenticato la sua terra e soprattutto il giuramento fatto alla madre, dopo la Strage di Via D’Amelio, di tenere viva la memoria del fratello Paolo, e continua a lavorare ora che ha 76 anni e potrebbe essere in pensione: il lavoro è la sua droga: fa l’ingegnere per vivere e lavora parlando ai ragazzi per non morire.
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Noi alla “Melone” nutriamo fiducia nelle future generazioni, per questo proseguiamo il nostro impegno per la legalità, la cultura e l’istruzione.
Stefania Pascucci e Riccardo Agresti