"Tu che m'ascolti insegnami", la poesia di De André rimasterizzata • Terzo Binario News

di Ginevra Amadio

Quella di Fabrizio De André era, secondo Fernanda Pivano, la voce di Dio. E soltanto Dio sa suonare, cantare ma soprattutto parlare dando l’impressione che il tempo non sia mai passato. Lui solo concepisce parole che una volta pronunciate non sono più sue, le mette in bocca agli umili, ai disgraziati e non volta le spalle ai poveri cristi che non hanno nemmeno la forza di gridare. Lui che sa farsi carico delle sofferenze riuscendo a comprenderle. Lui che non giudica, ma semplicemente ascolta.

Il rischio di cadere in tranelli agiografici o malinconici quando si parla di De André è sempre altissimo. Si finisce per omaggiare il musicista, il poeta, l’amico ideale, il mentore, il fratello in arte. Ma non si tocca mai quello che dovrebbe essere il nucleo centrale del discorso, ossia l‘uomo con tutte le sfumature del suo essere, le scelte, i destini, le parole. Scrivere di Fabrizio ponendo l’accento sul Padre non è dunque l’ennesima e inutile celebrazione che fa dell’improprio – involontariamente – la sua marca di fondo. Tanto più che quel Padre, per lui, è decisamente più Figlio, sceso tra gli uomini per gli uomini al fine di farsi finalmente comprendere.

Non a caso De André aveva fatto sua la massima di Leonardo Sciascia, secondo cui un uomo di cultura ha il dovere di esprimersi in maniera popolare. E per questo c’è stata la forma canzone, attraverso cui Faber ha sempre tentato di risvegliare l’uomo dal sonno della coscienza, dai comportamenti asserviti, dall’ipocrita e arida buona coscienza. De André è stato il padre della canzone italiana, e a ricordarlo è un Morgan in stato di grazia esegetica alla presentazione di Tu che m’ascolti insegnami (Sony Music), il cofanetto che contiene 78 brani rimasterizzati e tratti dai master analogici originali del cantautore. Un progetto non solo discografico ma artistico, celebrativo e, sopra ogni altra cosa, profondamente umano.

La raccolta è divisa in quattro sezioni create da Dori Ghezzi, moglie sempre bellissima e instancabile sacerdotessa del culto deandreiano. Ciascuna di esse reca a titolo un verso del poeta, attraversando con grazia narrativa l’amore e l’universo femminile, la spiritualità, la guerra e la pace, l’infanzia e la vita. Un’unica voce che si fa universale, come solo chi sa guardare e ascoltare gli altri è capace di fare. Sempre Morgan ricorda che «a differenza di altri artisti, come Luigi Tenco e Piero Ciampi, che entravano nei personaggi, De André li raccontava a distanza. Così che noi ascoltatori potessimo dire: sta parlando di me». Ed è proprio da quei personaggi che si riparte nella masterizzazione dei toni rauchi e struggenti della voce di Fabrizio.

Personaggi campioni dell’unicità del singolo individuo, della sua solitudine e della sua solidarietà, della bellezza che si nasconde nelle pieghe di una vita umile o persino degradata. I vinti che da Verga hanno assunto il patetismo e da Fabrizio la dignità. Che sono vittime dell’arroganza del potere e della violenza di un sistema che schiaccia e soffoca chi non si omologa alle regole previste dalla maggioranza.

È ripartendo dai vinti che la dolce asprezza di Fabrizio De André si mostra ancora una volta l’antidoto più efficace e attuale contro una società segnata dalle paure e dalla diffidenza nonché dai falsi miti del denaro e dei mass media. L’operazione da ingegneri del suono realizzata con Tu che m’ascolti insegnami non è solo un modo, come dice Dori Ghezzi, «per conservare il grande patrimonio di Fabrizio che va restituito al futuro, usando tecnologie innovative, senza tradire la bellezza originale». È la costituzione di un’opera d’arte destinata a durare, prima di tutto per ricordarne l’altissimo valore umano e spirituale. Non basta conservare la memoria dell’artista, delle sue canzoni, o distrarsi nelle reliquie e nei feticci da collezione. Occorre mantenere la forza dell’analisi e il potere disvelante della sua poesia tramandandoli anche a coloro che, anagraficamente sfortunati, non hanno potuto coglierne dal vivo la profonda intensità.

Tu che m’ascolti insegnami va in questa direzione ricordandoci ancora, attraverso le pause e il calore della voce di Faber, di pensare sempre e solo con la nostra testa. Senza pesantezze ideologiche o adesioni a culture, dogmi, retoriche. La rivoluzione comincia dentro ognuno di noi, occorre solo darle voce, corpo, e potenza per esplodere. E ascoltarla, è ovvio, come se ci stesse parlando, in suoni rochi e intensi, dall’Hotel Supramonte, in via del Campo o nel letto del Sand Creek.

 

Pubblicato sabato, 25 Novembre 2017 @ 00:19:06     © RIPRODUZIONE RISERVATA